I librettisti di Giuseppe Verdi. Arrigo Boito

I rapporti tra i due illustri artisti risalirono alla fine del 1862, quando il celebre compositore musicò L’Inno delle Nazioni, eseguito in occasione dell’Esposizione Universale di Londra, su testo dell’autore del Nerone, grazie alle premure della contessa Clara Maffei, protettrice del giovane letterato – musicista ed amica del grande Compositore, frequentatore assiduo del suo salotto milanese. In seguito, le intenzioni artistiche dei due ebbero a divergere, poiché il Boito si pose tra gli strenui innovatori del teatro lirico nel gruppo degli Scapigliati ed in un’ode goliardica accusò anche Verdi di aver imbrattato con le sue opere l’altare dell’arte.

Forse già nacque chi sovra l’altare

rizzerà l’arte, verecondo e puro.

su quell’altar bruttato come un muro di lupanare.

Il Compositore se ne dolse in una lettera, indirizzata a Tito Ricordi:

«Se anche io fra gli altri ho sporcato l’altare, come dice Boito, egli lo netti, ed io sarò il primo a venirgli ad accendere un moccolo».

Ci volle del tempo prima che il grande Maestro obliasse l’ingiusta frecciata del giovane contestatore, tantoché, nel 1869, lo escluse dal novero dei compositori, che avrebbero dovuto partecipare alla Messa di Requiem in occasione della morte di Gioachino Rossini, che non fu realizzata.

Fu la paziente linea diplomatica di Giulio Ricordi ad avvicinare il Boito a Verdi:

«Fin da quando andò in scena Aida alla Scala, si parlò molto e sempre fra me, Faccio e Boito di Lei, nel senso che Boito sarebbe stato felice di scrivere un libretto per Verdi. Boito fece rappresentare Mefistofele, e si accinse al Nerone: mi scrisse allora che non avrebbe più fatto libretti per alcuno, ma che se avesse potuto scrivere un libretto per Verdi, avrebbe tralasciato qualunque lavoro pur di avere tanto onore e tanta fortuna».

Dopo la felice esperienza dell’Aida, il Maestro tornò sull’opera, che mai avrebbe realizzato, il Re Lear; saranno Franco Faccio e Giulio Ricordi a suggerire Otello durante un incontro conviviale ed a consigliare al Maestro di leggere la traccia del libretto di Arrigo Boito.

Pochi giorni dopo, grazie all’ambascerie del Faccio, avvenne l’incontro tra il librettista e Verdi, i quali si sarebbero legati sempre più in affettuosa amicizia, con note di devozione di Arrigo verso il grande compositore. Il Boito recò la trama del libretto al Verdi:

«Fatene la poesia sarà sempre buona per voi, per me, per un altro», fu il suggerimento del Maestro.

«Sto applicando a questo lavoro – annotava Arrigo Boito – tutta una costruzione particolare, e ciò interesserà, credo, vivamente il nostro Maestro. Ma questa idea mi è venuta tardi, ed ora conviene che rifaccia tutta la parte lirica del secondo e terzo atto».

Alla fine di agosto del ’79, Giulio Ricordi chiese a Verdi di riceverlo «in compagnia di un amico», cui rispose:

«Sarà sempre gradita una vostra visita con un amico (che sarebbe Boito, s’intende), ma permettetemi che su questo argomento si parli chiaro. Una sua visita mi impegnerebbe troppo. Voi sapete come nacque questo progetto di cioccolatta (così si alludeva nel circolo degl’intimi al divisato soggetto del Moro di Venezia). Ora venendo con Boito bisogna che io legga il libretto. O io lo trovo completamente buono, voi me lo lasciate, ed io mi trovo in certo modo impegnato. O io, anche trovandolo buono, suggerisco qualche modificazione che Boito accetta, ed  io mi trovo impegnato ancor più. O non mi piace, e sarebbe troppo duro che gli dicessi in muso quest’opinione. No, no! Voi siete andato troppo avanti, e bisogna fermarsi prima che nascano pettegolezzi o disgusti. Mi pare che sarebbe meglio che mandaste…»

Il Ricordi e Franco Faccio recarono al Maestro il libretto della futura opera, tratto dall’Otello di Shakespeare, che si sarebbe dovuto chiamare Jago, per rispetto del medesimo soggetto musicato dal Rossini. Solo quando Verdi ebbe la certezza che il suo lavoro non sarebbe potuto essere paragonato a quello del Pesarese per forme e stili completamente diversi, allora accettò d’intitolarla Otello.

Dalla consegna del libretto alla prima passarono sette anni; Boito riuscì a riassumere poeticamente e all’interno delle limitate proporzioni imposte dal teatro lirico la tragedia scespiriana senza alterarne il significato.

Verdi intanto pensava di rimettere mano al Simon Boccanegra, opera verso cui provava un sincero affetto ed, in una lettera del 20 novembre 1880, informava Giulio Ricordi di voler intervenire sul secondo atto, per «dargli rilievo e varietà e maggiore vita». L’editore intuì che il Maestro desiderasse la collaborazione di Boito, che si dichiarò contrario al rifacimento, per poi arrendersi ai desiderata di Verdi.

Conclusi gli aggiustamenti, l’opera andò in scena alla Scala, riscuotendo un ampio successo, il 24 marzo 1881 con Victor Maurel, protagonista, Anna D’Angeri e Francesco Tamagno.

Terminata la bella esperienza col Simone, Verdi confessò in una lettera del marzo ’83 al suo vecchio amico Opprandino Arrivabene di voler ridurre il Don Carlo da cinque a quattro atti.

Nel marzo dell’84, mentre il Maestro iniziava a comporre la nuova opera, Boito si recò al Teatro S. Carlo, dove si sarebbe rappresentato il Mefistofele e, durante un banchetto ebbe a dichiarare ad un giornalista de Il Pungolo di aver trattato Jago «quasi contro genio, ma che, terminato, si era rammaricato di non poterlo musicare lui…». Verdi replicò immediatamente a Franco Faccio:

«Queste parole dette in un banchetto, si può ammettere non abbiano gran valore; ma disgraziatamente si prestano a commenti. Si potrebbe per esempio dire che io gli ho forzato la mano per trattare questo soggetto e Voi sapete del resto come sono andate le cose. Il peggio si è che Boito, rammaricandosi di non poterlo musicare lui stesso fa naturalmente supporre come egli non sperasse vederlo da me musicato come egli vorrebbe. Ammetto perfettamente questo, lo ammetto completamente, ed è per ciò che io mi rivolgo a Voi, al più antico, al più saldo amico di Boito, affinché quando ritornerà a Milano gli diciate a voce, non per iscritto, che io, senz’ombra di risentimento, senza rancore di sorta, gli rendo intatto il suo manoscritto. Più, essendo il libretto di mia proprietà glielo offro in dono, qualora egli intenda musicarlo. Se egli lo accetta, io ne sarò lieto, nella speranza di avere con questo contributo e giovato all’arte che noi tutti amiamo».

Al suo ritorno, Boito poté spiegare al Maestro come fossero state travisate le sue parole dalla stampa. Verdi gli replicò da Genova il 26 aprile 1884:

«Dal momento che Voi non accettate la lettera che scrissi a Faccio, non ha più significato, né scopo. E’ inutile oramai parlare più a lungo di questo, dal momento che Voi non volete assolutamente accettare l’offerta che Vi ho fatto, e, credetelo, senz’ombra d’ironia. Voi dite: Terminerò Nerone, o non lo terminerò?!.. Ripeto anch’io le vostre parole per ciò che riguarda Otello».

E della riappacificazione, informò il Faccio:

«Vi scrivo per ringraziarvi e per scusarmi della penosa commissione che vi diedi. Boito m’ha scritto a lungo, e m’ha spiegato come andarono le cose. Dunque, secondo Voi, debbo proprio finire quest’Otello. Ma perché? Perché? Per me è indifferente; pel pubblico ancor meno».

Dall’autunno del 1884, il lavoro di composizione dell’opera segnò il ritmo ed il Maestro informò Boito che avrebbe desiderato creare un monologo a Jago, come il Barnaba della Gioconda. Intanto iniziava a profilarsi la fattura della struttura compositiva, che si sarebbe rivelata complessa e robusta. Il primo atto fu terminato durante l’estate 1886 ed il 1° novembre dello stesso anno, Verdi spedì il seguente biglietto a Boito:

«Caro Boito, E’ finito! Salute a noi… (e anche a Lui!!). Addio».

E ancora il 18 novembre.

«Caro Boito, grazie dei due versi. Ho consegnato adesso adesso a Carignani gli ultimi atti dell’Otello. Povero Otello! Non tornerà più qui! Se stasera andate a sentire Emanuel (nell’Otello al Manzoni di Milano), scrivetemi domani una parola e ditemi se ho sbagliato molto! Addio, Addio».

L’opera andò in scena al Teatro alla Scala il 5 febbraio 1887, sotto la direzione del Maestro Franco Faccio cantarono Romilda Pantaleoni, Francesco Tamagno e Victor Maurel, cogliendo un successo, che rimarrà consacrato dalla storia.

«Ho bruciato le mie ultime cartucce – disse il Maestro a Boito, quasi spiegando l’intimo pensiero -. Stasera il pubblico avido di cose nuove ha preso tutto per sé. Se avessi vent’anni di meno, vorrei cominciare domani un’opera nuova a fatto che foste Voi a scrivermi il libretto».

Dietro alla composizione dell’ultimo, grande capolavoro del Maestro, vi fu l’azione congiunta di Boito, il quale aveva intuito quanto fosse grande il desiderio di Verdi di misurarsi con un’opera comica ed il soprano Teresa Stolz, intima amica del compositore e dell’editore, Giulio Ricordi.

Boito si mise immediatamente al lavoro, quando Verdi fu vittima dei suoi giustificati scrupoli:

«Caro Boito. Voi nel tracciare Falstaff avete mai pensato alla cifra enorme dei miei anni? E se non reggessi alla fatica? E se non arrivassi a finire la musica? Allora voi avreste sciupato tempo e fatica inutilmente. Per tutto l’oro del mondo io non lo vorrei. Questa idea mi riesce insopportabile; e tanto più insopportabile se Voi, scrivendo Falstaff, doveste, non dico abbandonare, ma solo distrarre la vostra mente da Nerone, o ritardare l’epoca della produzione».

Verdi, con vera e grande soddisfazione, ricevette il libretto nell’autunno dell’89 nel massimo riserbo e coll’impegno di mantenere il segreto fra pochi intimi. Nell’inverno del ’90, al termine del banchetto, Boito rivolse uno strano brindisi al «pancione smargiasso» e Giulio Ricordi chiarì: «Falstaff!». La notizia fece immediatamente il giro del mondo.

Intanto s’iniziò a parlare di una possibile data per l’esecuzione (carnevale del ’91), che Verdi immediatamente respinse, scrivendo a Ricordi:

«Io mi sono messo a comporre Falstaff semplicemente per passar il tempo, senza idee preconcette, senza progetti; ripeto per passare il tempo!» e nel mese di giugno: «Scrivendo Falstaff non ho pensato né a’ teatro, né a’ cantanti. Ho scritto per piacere mio e per conto mio, e credo che in vece della Scala bisognerebbe rappresentarla a Sant’Agata».

Nonostante continuasse a ripetere di non aver alcuna fretta di concludere, Verdi, verso la fine di settembre del ’91, inviò la riduzione della composizione a Ricordi, notando con ingenuo compiacimento:

«Il libretto pare anche più bello, ora che è stampato».

La perfezione si rivelò già nella costruzione della parte poetica, prima che nella musica, dove vita e caratteri dei personaggi, luci e colori degli ambienti sono predisposti, al fine d’offrire al compositore una notevole fonte d’ispirazione. La musica si compenetrò nella poesia, rivelandosi un capolavoro di sana e schietta comicità, di vivacità inesauribile in una felice convivenza tra passaggi inconsueti e bislacchi

scrolliam crepitacoli

scarandole e nacchere!

Di schizzi e di zacchere

quell’otre si maculi.

Meniam scorribandole,

danziamo la tresca,

treschiam le farandole

sull’ampia ventresca…

e versi, che anticipano la soave musicalità del Maestro:

Del labbro il canto estasiato vola

Pe’ silenzi notturni e va lontano

E alfine ritrova un altro labbro umano

Che gli risponde colla sua parola.

Boito si rivelò un valente poeta melodrammatico, che seppe servire il genio verdiano, contribuendo prepotentemente alla costituzione della sua gloria imperitura, di cui scrisse:

«[…] più caro che ispirarsi in Shakespeare per ispirar Verdi, e nulla di maggiore orgoglio che aver per due volte, col martello tolto a Shakespeare, fatto risuonare il colosso di bronzo di Busseto, quando l’età pareva volerlo ammutolire».

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