I librettisti di Giuseppe Verdi: Antonio Ghislanzoni

Antonio Ghislanzoni nacque a Lecco il 25 novembre 1824; fu dotato di una personalità particolarmente eclettica, che espresse studiando medicina a Pavia, quindi s’improvvisò dilettante di contrabbasso, successivamente si professò baritono, quindi poeta, commediografo, romanziere, giornalista, tipografo, bohemien e finalmente librettista, anzi «il librettista dell’Aida», per cui è ancora oggi ricordato.

Partecipò ai moti insurrezionali lombardi e toscani del 1848 e si arruolò tra le fila garibaldine, come racconta nelle Memorie politiche di un baritono. A Roma cadde prigioniero dei francesi, che lo spedirono nel carcere di Bastia, in Corsica; terminata la detenzione poté aggregarsi alla compagnia lirica di un certo Bellegrandi, con cui si esibì presso il Teatro Carcano di Milano nel 1855, ricevendo «[…] fischi e contumelie […] mentre io adunavo invano gli ultimi residui delle mie note agonizzanti per cantare nel Templario (del Nicolai) la parte eroica di Briano, m’intimarono di cedere le armi. All’indomani della sconfitta io presi risolutamente il partito di abdicare; e confesso che deponendo i titoli di baritono assoluto e di cantante disponibile, mi parve di rifarmi uomo, di ricostituirmi cittadino. L’ottimo Rovani, narrando dell’appendice della Gazzetta di Milano quel mio primo ed ultimo fiasco, con quella squisitezza, che era la luce simpatica di ogni suo scritto, si rallegrava che io abbandonassi la scena, promettendomi degli allori più invidiabili nel campo delle lettere. Da quel giorno divenni scrittore».

Fondò diversi periodici, che ebbero vita piuttosto effimera (Rivista minima, Petite revue, Il Capriccio), collaborò a lungo con la Gazzetta musicale di Milano, guadagnando la nomina di redattore capo, distinguendosi nella critica letteraria ed artistica. Scrisse diverse satire gradevoli per L’uomo di pietra e iniziò su Il Cosmorama pittorico il suo miglior romanzo: Gli artisti di teatro, in cui raccontò le luci e le ombre della scena teatrale e per la Biblioteca minima i Capricci letterati (Libro Allegro, Libro Serio, Libro Proibito). Si misurò con i romanzi Le donne brutte, ed Abrakadabra, cui seguirono Angioli nelle tenebre e dei racconti umoristici(Un suicidio a fior d’acqua). Si rivelò di tratto originale La storia di Milano – In chiave di baritono e raccolse, con saggio spirito autoironico, le scelte non sempre felici della sua vita economica in L’arte di far debiti di Roboamo Puffetti con gli ultimi commenti di Zeffirino Bindolo.

Il libretto dell’Aida fu ideato ed impostato da un eminente egittologo francese, Auguste Mariette Bey, ispettore generale degli scavi e del Museo al Cairo, che offrì il suo lavoro al Verdi per mezzo del comune amico Camillo Du Locle, già direttore dell’Opéra Comique di Parigi.

Il Maestro ne scrisse poi all’editore Giulio Ricordi in data 25 giugno 1870.

«Sant’Agata.

[…] Fin dall’anno passato fui invitato a scrivere un’opera per un paese molto lontano. Risposi di no. Quando fui a Parigi (nel marzo – aprile di quello stesso anno), Du Locle fu incaricato di riparlarmene. Risposi ancora di no. Un mese dopo egli mi mandava un programma stampato. Io lo trovai buonissimo e gli risposi che l’avrei musicato. Di più venne subito qui Du Locle. Ho studiato ancora il programma.

Bisogna ora pensare al libretto, o per meglio dire, a fare i versi, perché ormai non abbisognano che i versi. Ghislanzoni può egli e vuole farmi questo lavoro? Non è un lavoro originale, spiegateglielo bene: si tratta soltanto di fare i versi, i quali, ben s’intende (cioè lo dico a voi) saranno pagati molto generosamente. Rispondetemi subito, e preparatevi a venire qui con Ghislanzoni appena sia partito da S. Agata il signor Rogier, che aspetto a giorni. Vi telegraferà. Studiate intanto con Ghislanzoni il programma che vi mando1».

Il Maestro dunque, attraverso l’editore Ricordi, si rivolse a Ghislanzoni, che accettò immediatamente, per una nuova collaborazione, dopo il felice cambiamento dei versi de La forza del destino per la rappresentazione alla Scala nella stagione del carnevale 1868 – 69. All’inizio del luglio 1870, avvenne il primo colloquio operativo tra il librettista, l’editore, Giulio Ricordi, ed il Maestro, prodigo di consigli riguardo la versificazione, che il Ghislanzoni avvierà, dopo essersi ritirato nella città natale di Lecco.

Attraverso l’epistolario verdiano, possiamo seguire l’evolversi del lavoro e soprattutto conoscere le considerazioni istruttive, le osservazioni, i consigli di altissimo valore del Verdi, il quale non si sarebbe appagato di tracciare e sviluppare le grandi linee dell’azione, ma avrebbe fornito gli schemi ritmici delle strofe e talora anche dei versi, nei quali, pur nella forma rudimentale, stendeva i concetti, spesso le parole, che rimarranno nel testo poetico.

A proposito della «Scena della consacrazione» di Radames, del secondo quadro del primo atto, il Maestro non trova in evidenza «la parola scenica», che avrebbe posseduto in grado eminente il senso dell’espressione drammatica e dell’evidenza scenica.

«I personaggi – scrive Verdi – non dicono sempre quello che devono dire, ed i preti non sono abbastanza preti. Parmi altresì che la parola scenica non vi sia, o se v’è, è sepolta sotto la rima, o sotto il verso, e quindi non salta fuori netta ed evidente come dovrebbe. Io le scriverò domani, quando l’avrò riletta con più quiete, e le dirò cosa, secondo me, si potrebbe fare2».

Nella lettera del 16 agosto, il Maestro non è giunto ad alcuna decisione e rimanda ogni decisione, allorquando otterrà maggior capacità e carattere di comprensione.

«Occupiamoci ora del secondo atto, onde possa lavorare anch’io. Non vi è più un momento di tempo da perder. Bisogna fare una scena con un coro ben lirico, colle ancelle che abbigliano Amneris, e con una danza di moretti etiopi. Mi spiegherà meglio stendendo la scena3».

In seguito, Verdi invierà al Ghislanzoni il concetto con le parole in prosa del coro e di Amneris, che saranno mantenute nella prima scena del secondo atto.

Il 17 agosto, il Maestro scrive attorno al duetto tra Aida e Amneris del secondo atto, chiarendo il preciso significato, che conferisce alla parola scenica.

«Le strofe vanno bene fino “a te in cor destò”. Ma quando in seguito l’azione si scalda, mi pare che manchi la parola scenica. Non so s’io mi spiego dicendo parola scenica; ma io intendo dire la parola che scolpisce e rende netta ed evidente la situazione.

Per esempio, i versi:

In volto gli occhi affissami

E menti ancor, se l’osi:

Radames vive…

ciò è meno teatrale delle parole (brutte, se vuole)

…con una parola

Strapperò il tuo segreto

Guardami, t’ho ingannata:

Radames vive…

Così pure i versi:

Per Radames d’amore

Ardo, e mi sei rivale.

Che? Voi l’amate? – Io l’amo,

E figlia son d’un re.

mi paiono meno teatrali delle parole: “Tu l’ami? Ma l’amo anch’io, intendi? La figlia dei Faraoni è tua rivale! Ecc.” si bene ch’ella mi dirà: E il verso, la rima, la strofa? Non so che dire; ma io quando l’azione lo domanda, abbandonerei subito ritmo, rima, strofa; farei dei versi sciolti per poter dire chiaro e netto tutto quello che l’azione esige. Pur troppo, per il teatro è necessario qualche volta che poeti e compositori abbiano il talento di non fare né poesia né musica4».

Ultimato «tutto il bataclan di Radames» (la grande scena della Marcia trionfale), attende impazientemente dal poeta l’inizio del terzo atto.

«L’ultima frase della sua lettera – scrive allora Verdi in data 10 settembre – mi mette i brividi addosso: “Posso cominciare il terzo atto?” E come? Non è ancora finito? Ed io l’aspettavo di ora in ora5».

Il 28 settembre, riceve gran parte del terzo atto:

«Molto bene per questo terzo atto, quantunque vi sieno alcune cose, che, secondo me, vanno ritoccate: ma, ripeto, nell’insieme molto bene e gliene faccio i miei sinceri complimenti. Vedo ch’ella ha paura di due cose: di alcuni, dirò così, ardimenti scenici, e di non far cabalette! Io sono sempre d’opinione che le cabalette bisogna farle quando la situazione lo domanda. Quelle dei due duetti non sono domandate dalla situazione, e quella specialmente del duetto tra padre e figlia non parmi a suo posto. Aida in quello stato di spavento e di abbattimento morale non può né deve cantare una cabaletta. Nel programma vi sono due cose estremamente sceniche, vere e buone per l’attore, che nella poesia non sono ben rilevate. La prima: dopo che Amonasro ha detto: “Sei la schiava dei Faraoni”, Aida non può parlare che a frasi spezzate. L’altra: quando Amonasro dice a Radames:il Re d’Etiopia”, qui Radames deve tenere ed occupare quasi solo la scena con parole strane, pazze, esaltatissime; ma di questo parleremo a suo tempo. Non dimentichi le parole: “Oh patria mia, quanto quanto mi costi!6».

La lettera del 30 settembre riguarda le scene finali del terzo atto, ove emerge il senso della teatralità, la sicurezza della visione scenica, nel «taglio dei pezzi», posseduta dal Verdi in grado eminente ed infallibile.

Dopo l’estorta confessione di Radames ad Aida sulla posizione delle truppe egiziane, il Ghislanzoni avrebbe desiderato, seguendo le tradizionali forme melodrammatiche, un terzetto; osserva il Verdi:

«Qui ella ha voluto fare un terzetto, ma non è questo il momento di fermarsi a cantare, e bisogna correre subito alla sortita d’Amneris. Conservi pure, se vuole, i versi fatti; ma tolga quel “pel mio pugnale”, e riduca se può in due quei quattro primi versi. Per spiegarmi:

– Traditor!

– Dessa!

– Tu!

– Incauta!

– Muori ecc.

E sarebbe stato bene togliere anche quei due versi inutili in questo momento:

Di salvarmi è tempo ancor,

……………………………………..

Arrestate i traditor.

(che furono tolti)

Alla fine vanno benissimo i due versi:

Io qui resto, su me scenda

Il tuo vindice furor;

ma sarebbe non più bello, ma più scenico, dire semplicemente:

Io qui resto, o sacerdote!7».

Fu mutato il ritmo dei due quaternari accoppiati in un energico settenario, che il Maestro musicò, sostituendo all’elisione una cesura tra la quarta e la quinta sillaba ed il verso divenne:

Sacerdote, io resto a te

Il Maestro si mostrò ancora non soddisfatto dei versi del duetto tra Aida e Radames.

«Sia detto una volta per sempre ch’io non intendo mai parlare dei suoi versi, che sono sempre buoni, ma dire la mia opinione sull’effetto scenico, il duetto tra Radames e Aida è riuscito, secondo me, di gran lunga inferiore all’altra tra padre e figlia. Nel principio di questo duetto preferisco ancora una parte dei primi versi a questo recitativo, che è troppo secco. A me, per esempio, converrebbero (non so se a Lei possa convenire la forma) gli otto primi versi lirici, fino al “D’uno spergiuro non ti macchiar”. In seguito i versi “D’Amneris l’odio fatal saria / Insiem col padre dovrei morir”, non sono scenici, vale a dire non danno campo ad azione per l’attore; l’attenzione del pubblico non è attirata, e la situazione si perde.

Ella dirà: ma queste sono sciocchezze, i miei versi dicono lo stesso. Verissimo: sciocchezze fin che vuole, ma è certo che le frasi come: “Cadrà su me, sul padre, su tutti… Invan… tu nol potresti… ecc.”, quando siano accentate, attirano sempre l’attenzione del pubblico, e qualche volta producono grandi effetti8».

Mentre il lavoro sembra viaggiare spedito, una brutta indisposizione coglie il Ghislanzoni:

«Abbia cura della sua salute – gli raccomanda il Verdi – e procuri di lavorare quanto può per finire Aida. Non abbiamo più tempo da perdere9».

Pochi giorni dopo, il Maestro sollecita il febbricitante librettista: «Attendo [i versi] con impazienza per poter anch’io finire quest’atto.

Sento ch’ella abbia rifatto più volte la strofa di Radames. Il tempo non è stato perduto, perché:

Il ciel de’ nostri amori

Come scordar potrem

è felice assai, assai, assai. E mi spiace ch’ella non abbia conservato: “L’are de’ nostri Dei”10.

Nella successiva lettera, il Verdi spiega quanto tenesse al verso.

«Mi spiace ch’ella abbia levato quel verso, perché a me faceva gran giuoco per l’insieme11».

Spesso, il Maestro utilizzava le buone intuizioni poetiche del Ghislanzoni, al fine di piegarle secondo il suo genio, come nelle ultime tre scene dell’atto terzo:

«Ecco come avrei fatto per finire la musica di quest’atto. Le frasi sono le sue: basterà aggiustare qualche cosa per l’insieme11».

Vi fu un prezioso e cospicuo scambio di lettere per la redazione dell’ultimo atto. Scrive il Maestro:

«Se a questo duetto [tra Aida e Radames] si può riuscire a fare un bel principio, vedrà l’importanza che avrà nell’insieme dell’opera12».

Una prima stesura sarà giudicata «troppo agitata e tormentata» e il Verdi chiede che si evidenzi la frase: «Vive Aida»; finalmente si arriva alla stesura finale.

«Ma è molto bello questo duetto! Molto, molto, molto! Dopo quello del terzo atto, tra Aida e Amonasro, questo mi pare il migliore di tutti13».

A proposito della «Scena del giudizio», scrive al Ghislanzoni:

«Forse io m’illudo, ma questa scena mi pare una delle migliori del dramma. Forse ella (e forse ha ragione) non è del mio parere; ma s’io mi sbaglio è utile lasciarmi nell’errore14».

Sempre del Verdi è l’idea dello svolgimento della «Scena di Amneris», del «Giudizio» e chiede anche di terminare il quadro scenico secondo le sue intenzioni.

«Io avrei un’idea che ella troverà forse troppo ardita e violenta. Farei ritornare in scena i sacerdoti, ed al vederli, Amneris come una tigre scaglierebbe conto Ramfis parole acerbissime. I sacerdoti si fermerebbero un istante per rispondere: “E’ traditor! Morrà!”; poi continuerebbero il loro cammino. Amneris, rimasta sola, griderebbe in due soli versi, o decasillabi o endecasillabi: “Sacerdoti crudeli, inesorabili, siate maledetti in eterno!”. Io farò il possibile di trovare qualche cosa di passabile, e spero perché, le ripeto, mi pare buonissima».

Ancora una volta, il Verdi traccia la scena finale dell’opera, al di fuori dei vieti convenzionalismi ed il vecchio frasario melodrammatica in un’ottica di giovanile visione di un innovatore. Egli teme di «cadere nel facile e nel monotono»

«Non bisogna strozzarla, perché dopo tanto apparato scenico, se non fosse bene sviluppata, sarebbe proprio il caso del parturiens mons. La monotonia bisogna evitarla cercando forme non comuni. Così con un cantabile un po’ strano di Radames, un altro a mezz’aria di Aida, la nenia dei sacerdoti, la danza delle sacerdotesse, l’addio alla vita degli amanti, l’in pace di Amneris, formerebbero un insieme variato, bene sviluppato; e s’io posso musicalmente arrivare a legar bene il tutto, avremo fatto una buona cosa, o almeno cosa che non sarà comune, coraggio dunque, signor Ghislanzoni: siamo alla frutta, ella almeno. Veda adunque se in questa accozzaglia di parole senza rima, che le mando, può farmi dei buoni versi, come ella ne ha fatti tanti».

La scena finale è composta dal Ghislanzoni, attento a non usare formule e locuzioni abusate nella poesia melodrammatica, secondo le volontà del Verdi, come si evince nella seguente lettera.

«Vorrei levare la solita agonia ed evitare le parole: “Io manco, ti precedo, attendimi; morta! Vivo ancor! Ecc.”. Vorrei qualche cosa di dolce, di vaporoso, un a due breve, un addio alla vita. Aida cadrebbe dolcemente nelle braccia di Radames. Intanto Amneris inginocchiata sulla pietra del sotterraneo, canterebbe un Requiescant in pace17 ecc.»

Il successo dell’Aida accrebbe molto la reputazione di Antonio Ghislanzoni come poeta melodrammatico, ignorandosi l’effettiva portata degl’interventi risolutori del Verdi. Egli divenne quindi il collaboratore più ricercato dali operisti del suo tempo, collezionando cira sessanta libretti. Nonostante la mole di lavoro, purtroppo, non riuscì a diventare un oculato risparmiatore, anche se riuscì ad acquistare una casetta a Caprino Bergamasco, dove fondò un periodico: La posta di Caprino.

Quando Verdi finanziò la costruzione di un ospedale nel Comune di S. Agata, offrì al suo comune di residenza la proprietà dell’immobile, a patto che fosse mantenuto in vita natural durante, ricevendo un gentile ma fermo diniego.

Pochi giorni prima di morire, Ghislanzoni scrisse una lettera al suo amico Monteggia, in cui gli manifestò di sentire ormai vicina la fine allora pregò la domestica, Nina, di acquistare un cesto di ciliegie, poi invitò a casa sua i bambini del paese, cui offrì la golosità, nella camera da letto.

Così morì il 16 luglio 1893 il librettista dell’Aida.

(1) GAETANO CESARI, ALESSANDRO LUZIO. I Copialettere di Giuseppe Verdi. A cura della Commissione esecutiva per le onoranze a Giuseppe Verdi nel primo centenario della nascita, 1913. Lettera di Giuseppe Verdi a Giulio Ricordi del 25 giugno 1870, pag. 634.

(2) Op. cit., Lettera di Giuseppe Verdi ad Antonio Ghislanzoni del 14 agosto 1870, pag. 639.

(3) Lettera di Giuseppe Verdi ad Antonio Ghislanzoni del 16 agosto 1870, pag. 639.

(4) Lettera di Giuseppe Verdi ad Antonio Ghislanzoni del 17 agosto 1870, pag.641.

(5) Lettera di Giuseppe Verdi ad Antonio Ghislanzoni del 10 settembre 1870, pag. 645.

(6) Lettera di Giuseppe Verdi ad Antonio Ghislanzoni del 28 settembre 1870, pag. 645.

(7) Lettera di Giuseppe Verdi ad Antonio Ghislanzoni del 30 settembre 1870,  pag. 647.

(8) Lettera di Giuseppe Verdi ad Antonio Ghislanzoni del 8 ottobre 1870, pag. 651.

(9) Lettera di Giuseppe Verdi ad Antonio Ghislanzoni del 16 ottobre 1870, pag. 653.

(10) Lettera di Giuseppe Verdi ad Antonio Ghislanzoni del 18 ottobre 1870, pag. 654.

(11) Lettera di Giuseppe Verdi ad Antonio Ghislanzoni del 22 ottobre 1870, pag. 655.

(12) Lettera di Giuseppe Verdi ad Antonio Ghislanzoni del 22 ottobre 1870, pag. 660.

(13) Lettera di Giuseppe Verdi ad Antonio Ghislanzoni del 29 ottobre 1870, pag. 662.

(14) Lettera di Giuseppe Verdi ad Antonio Ghislanzoni del 4 novembre 1870, pag. 670.

(15) Lettera di Giuseppe Verdi ad Antonio Ghislanzoni del 4 novembre 1870, pag. 663.

(16) Lettera di Giuseppe Verdi ad Antonio Ghislanzoni del 4 novembre 1870, pag. 664.

(17) Lettera di Giuseppe Verdi ad Antonio Ghislanzoni del 10 novembre 1870, pag. 669

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