Il mito di Io nel racconto delle «Metamorfosi» di Ovidio

Nella regione tessalica dell’Emonia, c’è un bosco, chiuso dalle gole Tempe, da cui nasce il Peneo, fiume tumultuoso, i cui lamenti giungono fino al cielo; scorre lo Spercheo, «lussureggiante di pioppi»; l’«irrequieto» Enipeo; il «vecchio» Apidano; il «mite» Anfriso e l’Eante.

Un ultimo fiume, l’Inaco, che ingrossava le sue acque col pianto, viveva nascosto nel suo antro, avendo smarrito la figlia Io. Mentre ella tornava dal paterno fiume, Giove le aveva consigliato di ritirarsi nei boschi, per difendersi dal caldo, garantendole la protezione. La giovane donna non accettò il consiglio di Giove, tantoché il dio si sarebbe tramutato in nebbia, al fine di rapirle l’onore. Al fine di mascherare simili tradimento all’irosa e gelosa Giunone, Giove trasformò la figlia del fiume Inaco in una giovenca, che destò l’ammirazione di Giunone, la quale chiese al marito a chi appartenesse simile meraviglia. Il dio sbrigativamente ammise che fosse nata dalla Terra ed, al fine di non destare sospetti, la dona alla moglie, che l’affida alla custodia di Argo, il cane dai cento occhi. Condotta quotidianamente al pascolo, una volta, Io giunse, non riconosciuta, presso le rive del fiume e padre Inaco, dove vi si specchiò, retraendosi inorridita. Accettò le carezze delle Naiadi e mangiò dalle mani del padre dell’erba, mentre il pianto le bagnava gli occhi. Allora, col piede scrisse nella sabbia la tua triste storia ed immediatamente il padre, Inaco, la strinse a sé, commiserandosi di non potere dar seguito alla sua stirpe. Argo, intanto, accortosi della pietosa scena, divise Inaco dalla figlia, spingendola verso pascoli isolati. Giove, che spiava la scena dal cielo, non riuscì a contenere lo strazio causato, tantoché ordinò a suo figlio Mercurio di uccidere il terribile carceriere. Il dio alato, armato di una verga, che infondeva sonno, volò sulla terra, suonando una melodia dolce, che incuriosì Argo, il quale lo invitò a sedersi presso sé, chiedendogli donde provenisse quello strano strumento. Mercurio lo informò che sopra i monti dell’Arcadia, una Naiade, di nome Siringa,  votata alla castità, aveva eluso le insidie dei Satiri. Il dio Pan vide la Ninfa, la quale, accorgendosi di essere entrata nelle mire del dio cornuto, fuggì per luoghi impervi, fino a  giungere al fiume Ladone, chiedendo alle sorelle di mutarle forma. Quando Pan riuscì a stringere tra le mani la Naiade, si ritrovò un ciuffo di canne, che, riempite dal passaggio del vento, emisero un suono dolce e soave, che conquistò il dio. Così Pan legò tra loro le canne con la cera, dando al nuovo strumento il nome della fanciulla: Siringa. Argo, finalmente, assopito fu decapitato da Mercurio; Giunone, raccolse gli occhi del terribile cane, per fissarli alle penne del pavone, animale a lei consacrato. Quindi scatenò la sua ira contro Io, alla quale inviò un tafano, per tormentarla, costringendola a girovagare senza sosta. Giunta alla fine del suo peregrinare, Io si fermò sulle sponde del Nilo, invocando la salvezza a Giove, il quale, impietosito, chiese perdono alla moglie, Giunone, promettendole di non tradirla, chiamando a testimone lo Stige. Al placarsi dell’ira della dea, Io riprende il suo antico aspetto.

Ora gli uomini credono che, fecondata da Giove, abbia generato Epafo, re dell’Egitto e la venerano come una dea.

La fabula narra della Tessaglia, terra mitica, che diede i natali al piè veloce Achille, protagonista dell’«Iliade» ed al cercatore del Vello d’oro, Giasone; e quindi dei Centauri, sconfitti dai Lapiti, i Mirmidoni il cui eponimo era figlio di Zeus. Una terra ricca di personaggi importanti, in cui nascevano e s’intersecavano quattro fiumi storicamente interessanti.

Peneo è l’eponimo dell’omonimo fiume; il babbo era un Titano, la mamma una Ninfa ed aveva una figlia di nome Dafne, che abbiamo incontrato nel racconto del mito di Apollo.

Il fiume Spercheo era considerato un dio fluviale ed è citato nell’«Iliade», in relazione al personaggio di Achille, il quale gli dona una propria chioma, perché possa ritornare in patria, ma non sarà esaudito (non sempre gli dei esaudiscono i desiderata degli umani).

Nel fiume Enipeo, avvenne un miracolo: Poseidone vi si trasfigurò, per congiungersi con una bella donna, Tira e renderla madre di Neleo e Pelia, che sposerà Antigone, figlia di Edipo, il cui figlio Achille sarà un eroe della guerra di Troia.

Sulle rive del fiume Anfriso, Apollo, esiliato temporaneamente dall’Olimpo da Giove, pascolava le greggi del re Admeto, argonauta ed eroe della guerra di Troia.

Il mito di Apollo trova larga applicazione geografica anche in quest’inizio della fabula.

L’Io nella mitologia era la figlia del fiume Inaco, elemento Acqua, liquido amniotico, in cui sboccia la vita. La fabula racconta che Io si era smarrita; quante volte diciamo a noi stessi che ci sentiamo smarriti, come se non trovassimo la dimensione dell’io, nella quale ci identifichiamo.

Io è reclamata dalla brame di Giove, ma non mostra fiducia nel padre degli dei, tantoché lo costringe all’estrema trasformazione. Ella vede una nebbia davanti a sé e la attraversa, regalando il suo onore al dio. Molte volte, vediamo una nebbia davanti ai nostri occhi, perché cadiamo vittime del nostro Io, abbandonando il lume della ragione. L’Io si perde nella nebbia, ci costringe a procedere in direzioni ignote e sconosciute, poi, recuperato il trionfo alla ragione, la nebbia dell’indecisione si dirada. Mai quindi fidarsi della vanità dell’Io.

Giove trasforma l’Io, perché? L’Ego sarebbe quindi la nostra parte più instabile, facile ai trasformismi, facile ai cambiamenti, mutevole allo spirar del vento. L’Io è trasformata in una giovenca, un animale a testimonianza del movimento istintuale, incapace di vedere le stelle del cielo, quindi impossibilitato a realizzare per sé una visione diversa dalla soddisfazione delle reali necessità del corpo.

Essere soggetto ai movimenti dell’Io significherà essere prigioniero di cento occhi, che scrutano, spiano, costringono, tolgono la libertà. Prigionieri di un carceriere terribile, finché non avremo il coraggio – novelli Mercurio – di tagliare la testa all’ego, agendo in opposizione ai suoi dettami.

Quando Argo è ucciso, Giunone invia alla povera Io un tafano, che la costringe a girovagare senza sosta. Quando schiavi del nostro Io, infatti, sembriamo incapaci di trovar requie, girovaghiamo da un pensiero all’altro, viviamo nell’angoscia, ogni angolo del mondo ci sembra inospitale. E così come Io riacquista la calma primigenia, recandosi alle sue origini, alla fonte; così anche l’uomo, al fine di liberarsi del suo Io, deve ricorrere alla sua fonte, alla sua origine spirituale: agire senza alcun compenso, al di fuori di qualsiasi cambiamento nell’avere, ma sostanziale ricerca nell’essere.

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