Quando i preti si sposavano

Colla riforma gregoriana dell’XI secolo, si proibì definitivamente ai preti di prender moglie, obbligandoli all’obbligo del celibato. L’improvvisa interdizione favorì l’esercizio del concubinato.

Eppure, nella tarda antichità, il matrimonio non solo era permesso, ma consigliato, perché il consacrato potesse condurre una vita sessuale ordinata.

San Paolo (4 – 64?)

San Paolo scriveva nella Prima Lettera a Timoteo1:

«Bisogna che il vescovo sia irreprensibile, non sposato che una sola volta, sobrio, prudente, dignitoso, ospitale, capace di insegnare, non dedito al vino, non violento ma benevolo, non litigioso, non attaccato al denaro. Sappia dirigere bene la propria famiglia e abbia figli sottomessi con ogni dignità, perché se uno non sa dirigere la propria famiglia, come potrà aver cura della Chiesa di Dio?».

Il decimo canone del Concilio di Ancyra (314 s. C.) riconobbe ai diaconi il diritto a sposarsi, che doveva essere chiarita di fronte al vescovo nel momento della consacrazione, garantendo, altresì, l’indissolubilità del vincolo.

All’inizio del IV secolo, si ritenne opportuno precisare i termini della questione.

«Ecco cosa ordiniamo al vescovo e al diacono monogami, sia che le loro mogli vivano ancora, sia che siano morte: non è loro permesso, dopo l’ordinazione, di contrarre matrimonio se non hanno ancora moglie, o, se hanno moglie, di coabitare con altre, ma debbono accontentarsi di quella che avevano quando sono entrati negli ordini».

Alla fine del secolo, il matrimonio era ancora permesso, se vissuto nella castità, perché il sacerdote non si presentasse impuro davanti all’altare.

Papa Siricio (334 ca. – 399)

Così papa Siricio stabilì nell’anno 385:

«Dal giorno della loro ordinazione sacerdoti e leviti devono obbligarsi a votare i loro cuori e i loro corpi alla sobrietà ed alla pudicizia per piacere interamente a Dio e i sacrifici che quotidianamente offrono».

Il Concilio di Gerona del 557 introdusse una riforma assai curiosa: i chierici ed i vescovi, ricevuti gli ordini, potevano scegliere di vivere senza maritarsi. In caso contrario, avrebbero dovuto ospitare in casa un confratello, che garantisse la probità dei costumi coniugali.

Dal VI secolo, fu introdotta la confisca dei beni a carico delle mogli e la reclusione forzata in monastero per gli uomini, esclusi anche dalla possibilità di percorrere la carriera ecclesiastica.

Le sempre più stringenti regole avrebbero voluto disciplinare una condizione morale, che era largamente disattesa e disordinata. Dal momento che la gerarchia non riuscì ad imprimere nei sacerdoti un comportamento adeguato, iniziò allora lentamente ad emergere la necessità di condurre i consacrati al celibato obbligato.

Gregorio VII (1015 ca. – 1085)

Papa Gregorio VII provvide ad allontanare le mogli dai legittimi consorti – preti, perché fossero affidate ai signori locali, che avrebbero potuto disporre quale servitù.

Risultò ovviamente impossibile moralizzare il concubinaggio, cui molti preti si dedicavano. Gli eventuali figli non avrebbero potuto reclamare l’eredità paterna, perché portavano il cognome della mamma, tranquillizzando così la gerarchia da eventuali danni economici. Inoltre, molti figli di sacerdoti erano avviati alla carriera ecclesiastica, anche per supplire alla cronica penuria di vocazioni.

La Riforma gregoriana proibì il concubinaggio, riconoscendolo quale pratica eretica. Forse la gerarchia fu convinta non tanto dall’azione moralizzatrice, quanto riuscire a fermare le inevitabili donazioni, che i sacerdoti elargivano ai figli, perché il patrimonio ecclesiastico non fosse  mai stato intaccato.

Nel Sinodo romano del 1079, fu, infine, proibito l’accesso agli ordini religiosi da parte dei figli dei chierici. Il severo provvedimento provocò un immediato e preoccupante calo di vocazioni, tantoché la gerarchia fu costretta, qualche tempo dopo, ad affidare ai monaci la cura delle parrocchie.

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(1) 3, 2 – 5

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