30 Luglio 1924. Delitto Matteotti. Le dichiarazioni di Umberto Zamboni, nel racconto della stampa dell’epoca

Mercoledì 30 Luglio del 1924, il quotidiano La Stampa di Torino pubblicò nell’articolo di fondo un’analisi piuttosto approfondita sul carattere politico della scomparsa dell’onorevole Giacomo Matteotti.

I giornali d’area fascista da molto tempo insistevano nel derubricare il triste evento nell’area dei reati comuni. Per ciò  «il fascismo deve astenersi da qualunque atto che sia o paia diretto ad arrestare il corso della giustizia: e quindi niente decreti contro la stampa, niente minacce di «seconda ondata» e di «notti di S. Bartolomeo», niente intervento di «ras» nel processo, niente imbastimenti di romanzi grotteschi come quello di Matteotti fatto uccidere dagli antifascisti».

Nell’evidenziare la matrice politica dell’evento, gli effetti si ripercuoterebbero inevitabilmente «sulla situazione del fascismo e del Governo, e questi debbono più che mai tirarsi da parte per lasciar libero il corso della giustizia e aspettarne i risultati».

Luigi Federzoni (1878 – 1967)
Roberto Farinacci (1892 – 1945)

Il Ministro dell’Interno, Luigi Federzoni, in una circolare lo classificò tra i «tristi avvenimenti di cronaca», ripercorrendo l’analisi offerta da Roberto Farinacci, nella lettera inviata al Procuratore generale della Corte d’Appello di Roma.

«Si pretende sostenere che esso delitto non appartiene a nessun partito: ebbene, allora è giuoco forza rispondere che, si, il delitto Matteotti è un delitto politico. Non è poi colpa delle opposizioni, né del popolo italiano, né del povero assassinato, se questi era un leader dell’opposizione; se egli venne soppresso fra un discorso di opposizione e l’altro; se gli arrestati come presunti esecutori o mandanti o complici appartengono al partito dominante ed erano con esso in stretto rapporto; se, anzi, facevano parte del quadrumvirato direttoriale fascista, mentre uno aveva una alta carica politica alla Presidenza del Consiglio ed era uomo di fiducia ed uno dei maggiori strumenti del Capo del Governo.

Amerigo Dumini (1894 – 1967)

Tutto questo non se l’è inventato l’opposizione: tutti questi sono fatti; anche senza andare a cercare la figura specialissima del Dumini, nei suoi rapporti coll’ambiente governativo, e i presunti legami fra l’assassinio Matteotti e altri delitti precedenti, e, infine, la connessione evidente di tutti questi fatti criminosi con la mentalità e il linguaggio delle sfere dirigenti.

Tutti questi fatti, dunque — che non si saremmo astenuti dal rievocare ancora, senza le insipienti provocazioni di questi giorni — collocano indubbiamente il delitto Matteotti fuori della sfera «di uno dei tanti delitti comuni». Chi sostenesse il contrario darebbe prova di una assoluta incoscienza politica e morale. Deriva da questo, che dunque il processo Matteotti debba essere, tout court, il processo al fascismo e alla «rivoluzione fascista»?

No: questa necessaria conseguenza non c’è, e neppure le opposizioni estreme la traggono. Esse si limitano — e dentro questi limiti tutto il popolo italiano è con loro — ad affermare due cose:

I) che il delitto Matteotti rappresenta il culmine, lo sbocco di tutta una situazione anormale — posteriore alla «Marcia su Roma» — che deve essere eliminata al più presto (e questo punto non riguarda il processo propriamente detto);

II) che non deve esser posto alcuno ostacolo all’opera della giustizia, che questa non deve essere arrestata da alcun limite e da alcuna pregiudiziale; perché così lo esige la coscienza morale, e con essa i nostri ordinamenti giuridici che non conoscono, all’infuori del Capo dello Stat. — e del Pontefice — nessun individuo, nessun ente inviolabile le insindacabile: proprio nessuno».

Concludeva il Farinacci che al processo sarebbe stata dimostrata l’estraneità del Fascismo all’atto criminoso.

Le dichiarazioni dell’onorevole Umberto Zamboni. Egli era considerato   «una delle più belle figure del nostro mondo politico, per il contegno eroico tenuto durante la guerra come maggiore degli alpini, che lo aveva posto al di sopra d’ogni insinuazione». Militante nel Partito Socialista, godeva della fiducia del Re.

Intervenne nel mezzo delle indagini, seppur le sue dichiarazioni non sarebbero state ammesse al processo. Il deputato denunciò l’insipienza della Polizia, connivente con alcuni autori materiali del delitto, e la compromissione di personalità fasciste nella faccenda.

Il mondo politico protestò per l’impunità accordata al Dumini, malgrado si fosse accusato di più omicidi. Secondo lo Zamboni, l’accusato «disponeva di una specie di talismano, di un lasciapassare protettore a firma del presidente del Consiglio». Allora sarebbero chiari i provvedimenti di carattere restrittivo attuati dal Governo nei riguardi dei quotidiani.

I commenti della stampa.   Il Popolo ha raggiunto il deputato, che ha rilasciato le seguenti dichiarazioni. 

«L’on. Zamboni, di ritorno da una gita a Milano in questi giorni, richiesto prima di tutto che cosa credeva di rispondere all’onorevole Farinacci circa l’affermazione di stretta amicizia di lui, Zamboni, con Cesare Rossi.

Vi ringrazio, è come invitare un’oca a bere, come si dice da noi… Voi vi sorprenderete di vedermi ancora a piede libero dopo l’accusa di complicità nel nefando assassinio del povero Matteotti, lanciatami dall’eroico ed insigne avvocato Farinacci.

Il mio amico Baldesi ha creduto di dovere spendere qualche lira per un telegramma di protesta. Io, proprio, non sentii di dovere, a quel ridicolo dondolone, né la minima spesa né qualsiasi perdita di tempo. Farinacci, al quale rivolsi qualche volta solo parole di scherno, deve ricordarsi che io gli tolsi anche quell’onore — dopo avergli detto quanto si meritava — quando una mattina, nel salone dei Passi Perduti in Parlamento, mi metteva sotto il naso il suo manganello, dicendomi di fiutare l’odore di sangue di molti miei amici. E se Farinacci ben ricorda, ruppi la regola una volta sola per chiedergli spiegazioni, in cospetto di un giornalista mio amico, a proposito di una sua insinuazione circa la mia amicizia col suo amico Rossi di Regina Coeli, insinuazione fatta ad un gruppo di giornalisti. Quel mio amico sa quello che allora il bel tomo rispose, e con me si sarà meravigliato della disinvolta riesumazione. Ad ogni modo è bene che tutti sappiano che io ebbi una sola volta contatto col Rossi (che mi si definì settario) nella sua qualità di capo dell’ufficio stampa della Presidenza del Consiglio; precisamente quando, assente l’onorevole Mussolini, si scatenò una violenta campagna della stampa ufficiosa contro le trattative che allora, io e Baldesi, conducevamo tra Roma e Gardone.  La campagna venne scatenata — guarda il caso! — dietro pressioni di Farinacci e di Rossoni.

Benito Mussolini (1883 – 1945)

Tutti devono ricordare il telegramma del primo a Mussolini a Londra, e la risposta di questo signore, malgrado che le trattative fossero state avviate con la sua consapevolezza e con tutta la sua approvazione. Io chiesi ragione al Rossi del perché della campagna ostile e ne ebbi dichiarazioni tranquillanti (non certo in buona fede), e tutto finì lì. Se Farinacci ha documenti che dicano qualche cosa di diverso, è pregato di darcene notizia al più presto. Ed ho finito».

Il giornalista ha pregato l’onorevole Zamboni di dirgli se fosse vero che egli in questi giorni si fosse recato a Milano per compiere delle indagini sull’assassinio dell’onorevole Matteotti e sull’occultamento della misera salma.

Zamboni ha risposto: «Voi permetterete che io mantenga il necessario riserbo sulle notizie che io raccolto relativamente all’ultima destinazione del cadavere dell’onorevole Matteotti. Però, francamente, vi dico che ho potuto avere facili informazioni su cose degne del Gran Guignol, in quanto il delitto, l’affare, il denaro, la donna e, da ultimo, come copertina, la politica, hanno in questa oscena tragedia parti preminenti.

Mi sono recato a Milano e, naturalmente, mi sono portato nell’ambiente nel quale il Volpi, il Panzeri e compagni si erano restituiti soddisfatti, dopo l’im-pressione che, per loro, nulla doveva differenziare il delitto Matteotti dai tanti e tanti altri impunemente compiuti dietro il solito relativamente lauto compenso.

Vi confesso subito che mi è sembrato strano che l’autorità di P. S. non abbia capito che quello era l’ambiente nel quale immediatamente si doveva investigare. Ma forse la spiegazione l’avrete innanzi. Se la polizia avesse infatti interrogato la persona che coll’onorevole Ellero andò dal Procuratore del Re di Milano (il quale dichiarò di doversi servire di una speciale sua polizia, non potendosi fidare dell’ordinaria) a portare la denunzia dove viveva il Volpi, denunzia che portò al suo arresto la notte stessa, (mentre si trovava non solo indisturbato, ma ben guardato da un agente investigativo, non seccato da un certo maresciallo dei carabinieri, che alla denunzia dello stesso signore dichiarava di non volersi immischiare in quelle faccende e che non avrebbe arrestato il Volpi neanche se lo avesse incontrato per la strada), avrebbe saputo da chi la banda, che operò contro Matteotti, ebbe l’ordine dell’operazione e come, presso a poco, si svolse l’azione brigantesca.

Avrebbe quindi saputo come Matteotti venne punzecchiato coi pugnali per farlo parlare; come più tardi gli venne infetta una pugnalata al collo ed alla spalla, e come in ultimo venne strangolato. D’altra parte, l’autorità avrebbe con facilità potuto sapere che nel mettere il Matteotti in una cassa da morto ordinaria gli spezzarono il braccio sinistro perché divaricato in atteggiamento di estrema difesa.

L’autorità avrebbe ancora saputo sapere che il prezzo dell’assassinio, percepito dal solo Volpi, fu di 50 mila lire.

Cattivo affare! — esclamava anzi il Volpi, dopo viste le prime complicazioni.

La Questura di Milano avrebbe anche potuto mettersi in moto dietro le informazioni della stessa gente che io andai in proposito ad interpellare, perché vi fu persona che denunziò a San Fedele quanto di anormale aveva dovuto notare nei giorni immediatamente precedenti allo scandalo Matteotti, nell’abitazione di una signora di facili costumi, di via Cerva, notoria amante del Putato. E nello stesso ambiente ancora avrebbero potuto essere ricavate preziose notizie relative alla precedente attività, di taluni dogli implicati nella tragica faccenda.

Infatti, il Dumini, che allora, circolava sotto il nome di Gino Bianchi, ed in pericolo di essere lasciato indifeso alle prese colla giustizia, dichiarava, a persone vive e disposte a deporre, di avere ammazzato sino allora sei o sette persone, tra le quali anche dei fascisti, per incarico di alte personalità fasciste e governative; e faceva vedere come talismano per la sua impunità un certo lascia-passare a firma di Benito Mussolini; e soggiungeva, che, qualora, si fosse creduto di abbandonarlo alla sua sorte, egli si sarebbe eclissato, lasciando nelle mani di un allora redattore dell’«Ardito» la documentazione di tutti i foschi e tragici intrighi che venivano orditi nell’ambiente governativo e fascista».

Gabriele D’Annunzio (1863 – 1938)

Zamboni volle commentare anche il giudizio di Gabriele D’Annunzio, col quale intratteneva buoni rapporti d’amicizia. Impressionato dal suo silenzio, aveva intenzione di fare una scappata a Gardone, a trovarlo.

«All’uopo passai a Verona da un amico mio e del poeta, presso il quale lessi in una lettera, fresca fresca, in data del 23 corrente quello che la mia gita ricercava e elle visto come assoluta primizia a chiusa di questa mia intervista. Alla richiesta del comune amico, del suo parere sulla situazione creata dal delitto Matteotti, il poeta cosi brevemente risponde:

 «Sono molto triste dì questa fetida ruina».

E col riferimento di questo giudizio di Gabriele D’Annunzio sulla situazione, l’onorevole Zamboni ha voluto chiudere le sue dichiarazioni».

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