Pensieri di Francesco De Sanctis intorno alla musica

Pietro Metastasio (1698 – 1782)

Leggendo la «Storia delle letteratura italiana» del De Sanctis intorno alla figura di Pietro Metastasio s’incontra un profondo disagio per i continui riferimenti alla musica, intesa come simbolo di fiacchezza per coloro che avrebbero deciso di abbandonare ogni profondo interesse di vita, ogni urgenza di affetti.

Analizzando Metastasio e le altre figure della nostra letteratura, ci accorgeremmo che la grandezza della prosa desanctiana, caratterizzata da rievocazioni e ricostruzioni vive e balzanti, piene di forza chiarificatrice, ci avrebbe indotto a sfuggire dal continuo richiamo alla musica, sinonimo di mollezza, di «dolcitudine», di decadenza. Il raggio d’azione non si sarebbe esaurito alla disamina dell’opera letteraria del poeta cesareo romano, ma avrebbe compreso il Petrarca, il Tasso, l’Arcadia e perfino Giacomo Leopardi.

Il racconto storico del Melodramma esula dall’analisi dei testi poetici, per soffermarsi sulla musica stessa, qualificata quale ozio di corte, fiore e frutto nato dal processo di dissoluzione della nostra grande poesia nell’Arcadia pastorale e accademica.

Colto da infermità agli occhi negli ultimi anni della sua vita, il De Sanctis dettò alla nipote, Agnesina, i ricordi della sua giovinezza. Quando insegnava presso il Collegio Militare di Napoli, iniziò ad interessarsi alla politica attraverso la lettura dei giornali francesi, ponendo l’accento sul fastidio, che provava, notando l’indifferenza dei napoletani alla politica:

«Erano alla moda pettegolezzi letterari; cominciavano a uscir fuori Omnibus, Poliorami e Strenne; le menti costretto in piccol cerchio impiccolivano e pettegoleggiavano. Si chiacchierava ancora molto di musica. Bellini morto, era più vivo che prima. Era il tempo di Lablache e della Malibran. San Carlo era nel suo fiore; la «Norma» aveva voltato i cervelli; i motivi li sentivi canticchiare per tutte le vie. In mezzo a queste ebbrezze musicali e letterarie io ero una stonatura; e mi piantavano lì con Thiers e Guizot, sicché finii con ruminarli io tutto solo1».

Un motivo simile è ripetuto in un lungo brano delle lezioni di letteratura italiana del secolo XIX.

«La letteratura era ancora metastasiana. Mi direte: dove era la genialità meridionale? Bisogna aver vissuto in quei tempi per capir che cosa appassionava le moltitudini, che cosa le faceva fremere. L’Iride [strenna letteraria napoletana del tempo] era letta da pochi, le gare tra puristi e romantici rimanevano in piccol cerchio, ma l’annunzio della «Norma» o del «Barbiere» commoveva tutta la città: era il tempo glorioso del S. Carlo. […] Dalla poesia secentistica ed arcadica uscì la musica… ed allora questa terra era ancora la terra di Paisiello, di Pergolesi, di Cimarosa: c’era Zingarelli, c’era Bellini; qui si educò Rossini, qui Donizetti. – Ecco dov’era la nostra genialità! […] Tutta quella ricchezza di colori e di forme senza contenuto si esalava per via dell’orchestra2.».

I giudizi così severi rivelano, in verità, una scarsa conoscenza della storia della musica italiana, seppur confermano, secondo la sua personale visione, l’incapacità dell’arte dei suoni di elevarsi verso le vette della grande poesia, decadendo dall’ideare un contenuto secondo l’ideale estetico desanctiano.

Si evince, in ulteriore analisi, che la musica rappresentasse un segno estremo della decadenza religiosa, etica e politica, in cui sarebbe maturato il dissolvimento della poesia, che non fu ritenuto mezzo sufficiente, per esprimere i sentimenti dell’anima eroica ed infiammata di Dante, il furore di Giordano Bruno e la ricca e varia umanità del mondo ariostesco. La parola fu considerata nell’aspetto fonetico e vocale, trovando libero sfogo nel melodramma, in cui il melos avrebbe contato più del dramma, esibito quale schema e sostegno materiale.

Dante Alighieri (1265 – 1321)

La poesia di Dante nasce adulta e robusta, segnando un punto di partenza epico ed altissimo, grazie anche all’immaginazione, alimentata da una varietà, vastità e profondità d’interessi concreti e vitali, che sono i frutti della complessa enciclopedia dello spirito trecentesco, laddove «le parole nascondevano le cose», come sosteneva il De Sanctis.

Francesco Petrarca (1304 – 1374)

Col Petrarca e, poi, nel Tasso l’anima respira vaga e riposante, risolvendo in uno squilibrio verso la pura forma:

«Un dolce fantasticare tra mille suoni della natura, in cui l’anima ritirata in sé malinconica e disposta alla tenerezza, e sentì la sua presenza e il suo accento in quel fantasticare. La natura diviene musicale, acquista una sensibilità, manda fuori con le sue immagini mormorii e suoni… Prevale nell’uomo la parte femminile: la grazia, la dolcezza, la pietà, la tenerezza, la sensibilità, la voluttà; tutto quel complesso di amabili qualità che dicesi il sentimentale. I popoli, come gl’individui, nel pendio della loro decadenza, diventano nervosi, vaporosi, sentimentali. Non c’è un sentimento che venga dalle cose, ciò che è proprio della sanità, ma è un sentimento che viene dalla loro anima troppo sensitiva e lacrimosa. Manca la forza epica di attingere la realtà in se stessa, e questa vita femminile è un tessuto di tenere o dolci illusioni, nella quale l’anima effonde la sua sensibilità.

Torquato Tasso (1544 – 1595>)

Nel Tasso, «l’immaginazione non è chiusa in sé, come in un ultimo termine, a quel modo che dal Boccaccio all’Ariosto si rivela nella poesia; ma è penetrata di languore, di lamenti, di concetti e di sospiri, e va diritto al cuore4».

«Nella Gerusalemme è un mondo musicale, figlio del sentimento, che dalla più intima malinconia va digradando fino al molle e voluttuoso di una natura meridionale, perché nel suo autore abbonda quel senso della musica e del canto, quel dolce fantasticare dell’anima tra le molli onde  di una melodia malinconica insieme e voluttuosa5».

Giovan Battista Guarini (1538 – 1612)

L’intenzione del poeta non emerge, così da fornire un poema lirico, come il «Pastor Fido» di Guarini, che parte con pretese drammatiche, per risolvere in un mondo similmente lirico.

«Il secolo era vuoto di passione e di azione, e vuoto di coscienza, né il Concilio tridentino poté dargliene altro che l’apparenza ipocrita. rimaneva l’idolatria della letteratura, considerata come un bel discorso nell’eleganza delle sue forme, condimento di una vita molle tra le feste e le pompe e gli ozi idillici delle corti. E questa è la vita che ti da il Guarini: bei discorsi lirici e musicali, per entro ai quali spira un’aria molle e voluttuosa6».

Giovan Battista Marino (1569 – 1625)

Nel capitolo dedicato alla poesia di Giovan Battista Marino, la critica si rinnova nella definizione di una poesia, che «non è azione e neppure narrazione, bensì spettacolo vocalizzato, descrizione a tendenze liriche». Il contenuto si rivela «un assoluto ozio interno, un’esaltazione lirica a freddo […] frivolezza sotto forme pompose e solenni […] vista delle cose superficiale e leggiera […] isolata dal fondo» ed, essendo la parola isolata dall’idea è ormai vacua sonorità. Siccome nel linguaggio verbale si stava sviluppando l’elemento cantabile e musicale allora «si fabbricavano i periodi a suon di musica […] avendo ciascuno nell’orecchio un’onda melodiosa».

Secondo l’analisi del De Sanctis, il Metastasio adunava nella sua produzione letteraria detti caratteri, denominati «secentismo».

«Eravi in lui mollezza e facilità del Marino, e con un artificio di stile che ricorda il Tasso. […] Se non che, quegli effetti che il Tasso, il Guarini, il Marino, cercavano nei concetti, nel raffinamento dell’idea, egli li cerca nel raffinamento musicale della forma. Le sue idee, le sue immagini sono naturalissime, spesso comuni; tutta la sua attenzione è in ammollire la parola e la frase, cavarne effetti musicali7».

«Il suo mondo greco – romano, che nella sua intenzione doveva essere eroico – tragico, gli si trasformò nelle mani, e divenne un mondo maraviglioso – elegiaco, penetrato di elementi idillici e comici, pieno di sorprese e di emozioni, di movimenti drammatici, e fissato in una forma sensibile e impressionabile, o, come dice Dante, trasmutabile in tutte guise, luce, colore e melodia. Questa flessibilità della forma è ciò che dicesi dolcezza metastasiana, che si collega così bene con la sua tenera sensibilità, con la sua ingenuità e col suo brio comico8».

De Sanctis sancisce la morte della letteratura, affinché avvenisse la nascita della musica, fiore malato di una pianta problematica, che ormai avrebbe prodotto frutti poco gustosi. La valutazione sembra esser colta dalla decadenza della nostra letteratura, ristretta ad un momento limitato di tempo, dal Cinquecento al Settecento, che il De Sanctis cristallizza in ultima analisi, definendo un canone di distinzione tra poesia e non poesia, poesia vera e voluttuaria.

Anche il Romanticismo, secondo il De Sanctis, non realizza la poesia, travalicandola o addirittura sfiorendola nella musica:

«Per esprimere i sentimenti violenti avete la lirica, uno stato indefinito dell’anima a cui corrisponde la musica: la parola più non esprime qualche cosa di netto e preciso. I romantici al plastico cercarono sostituire appunto il carattere lirico e musicale.9 […] una scuola che fondava l’arte su questa forma, non poteva star contenta ai generi di letteratura allora in voga, e andò  dissotterrare quei generi che erano stati in voga nel Medio Evo. Il genere letterario corrispondente a quella forma era la Leggenda, la Romanza, la quale è la leggenda da cui si toglie via il racconto, non rimanendovi che il motivo lirico e musicale. Insomma immaginate una tragedia da cui siasi tolto tutto, rimanendo la catastrofe: un momento lirico da cui nasce n’esposizione quasi musicale10».

Nel Melodramma, la poesia del Tasso e dell’Arcadia serve prevalentemente a indicare e chiarire il lato idillico ed elegiaco colla contemporanea rinuncia ad ogni sorta di dramma e di agitazione; nel Romanticismo, è impegnata a chiarire l’esplosione del sentimento nella sua violenza e indisciplinatezza anarchica, dell’indefinito e del diffidente, di ciò che il De Sanctis sottolinea come «fantastico», con cui rinasce l’ottava.

«Dopo di essa erano venuti i versi sciolti, come ne’ Sepolcri. Ma in questi è impossibile l’intonazione musicale, mentre nell’ottava nasce un’onda armonica che si presta a tutti i movimenti di quello indefinito, che fu detto il fantastico11».

Giacomo Leopardi (1797 – 1838)

Del massimo campione del Romanticismo, Giacomo Leopardi, annota:

«Il primo amore ha tinte soavi, e ti lascia in quella sua sincerità ed ingenuità di sentimento un’impressione pacata, di una dolce malinconia. Ciò che c’è di troppo straziante nella realtà, viene trasfigurato nella ricordanza, diventa melodia. A questa felice disposizione si debbono gl’Idilli, […] motivo musicale e poetico, nella sua semplicità, di quello che, più tardi, sviluppandosi, fu rappresentazione della vita pastorale, spesso informa drammatica12».

Nell’Infinito, egli annota il senso del fantastico – sentimentale, causato dall’incerta espressione musicale, poiché davanti al Leopardi «non ci sono idee, ma ombre delle idee, non c’è il concetto dell’infinito e dell’eterni, ma ce n’è il sentimento. E queste ombre e questi sentimenti sono immediati ed inconsapevoli. Non nascono da un pensiero attivo che li produca con la sua impronta; anzi sembra che naturalmente piovano nello spirito. Nessun vestigio di elaborazione, niente di successivo e di sovrapposto a quelle ombre nella loro formidabile nudità, che portano seco il loco colore e la loro musica13».

Quali furono le esperienze musicali del De Sanctis, che gli avrebbero permesso di approfondire l’essenza della musica, traendo dei principi estetici, seppur sottintesi? Risulta che le sue esperienze musicali siano state scarse e frammentarie.

In gioventù, studiò il pianoforte ed il canto; eppur disconosciamo il grado di perfezionamento ottenuto; probabilmente frequentò i primi rudimenti, considerata la musica un complemento dilettantesco, quale orpello decorativo più che metodo educativo.

Finché insegnò a Napoli, prima degli avvenimenti politici che gli avrebbero causato l’esilio, s’interessò punto delle stagioni liriche sancarliane, preferendo gli studi letterari e le distrazioni politiche.

Avrebbe potuto trarre qualche profitto per la sua educazione musicale, a Zurigo, dove, negli anni del lungo soggiorno, si era raccolto «il fiore dell’emigrazione tedesca e francese15». Ebbe incontri con Wagner, Thalberg, con Liszt, assistendo ai suoi concerti, di cui racconta in una lettera del 3 novembre 1856:

Franz Liszt (1811 – 1886)

«Ieri sera ho veduto in una società il celebre Liszt. Thalberg e Liszt, come sai, sono due celebrità del mondo musicale. Liszt è il Paganini o il Manzoni del pianoforte. Dio! Che magia in quelle dita! Sonò la tarantella napoletana; abitai Napoli per qualche istante; vidi quel riso infinito d’uomini e di cielo, quell’allegria inesausta anche in mezzo alle sventure. Com’io me ne stavo duro e assorto pensando a Napoli ed a Sorrento, due donne mi si avvicinarono ed intavolarono con me un discorso lungo sul canto, sulla tarantella, sull’orecchio musicale dei napoletani ecc. Oh certamente, – rispondevo io – già, – e simili cose; e pensavo a Napoli ed a Sorrento. Liszt fece una sonata a due mani portentosa. Con la sinistra sonò distintamente due motivi della Sonnambula, e con la destra accompagnando li unificava. Da una sola mano uscivano due motivi: è un miracolo? Gli è, rispondeva Thalberg, che Liszt ha un sesto dito16».

Questa lettera è solo la testimonianza di essere stato tra il pubblico ad un concerto di Franz Liszt e non dichiara neanche in quale «Società» abbia organizzato l’evento.

Mathilde Wesendock (1828 – 1902)
Richard Wagner (1813 – 1883)

In una lettera indirizzata nell’ottobre 1858 al filosofo Camillo De Meis, accenna delle sue frequentazioni con Richard Wagner e Mathilde Wesendock, informandolo che la poetessa, cui successivamente insegnerà la lingua italiana, avesse perduto il figlio.

Richard Wagner ebbe modo di conoscerlo ad un pranzo, tenuto il 13 febbraio 1858, in casa di Mathilde, come racconta un appunto del De Sanctis17.

Richard Wagner in una lettera del 7 aprile 1858 espresse la sua antipatia per l’illustre professore, che, dovendo insegnare la lingua italiana a Mathilde, avrebbe ostacolato la relazione intima tra i due20. I rapporti sarebbero poi tornati nei binari della cordialità grazie all’opera diplomatica della Wesendock, che, scrive Benedetto Croce: «il Wagner aveva dimenticato il letterato italiano e nell’aprile del ’59 lo chiamava Herr von Heiligen, a proposito di una traduzione tedesca del Tasso, che egli cercava» e nel maggio «si rallegrava che il De Sanctis non fosse andato, come ne aveva intenzione, con Garibaldi, che non risparmiava i suoi uomini18». In un’altra missiva19 del compositore a Ricordi, dopo aver spiegato i motivi dell’insuccesso della rappresentazione parigina di Tannhäuser, promette un imminente viaggio in Italia, dove spera di trovare l’appoggio dell’«amico», De Sanctis, divenuto Ministro della Pubblica Istruzione. Nonostante le relazioni fossero divenute amichevoli per l’intervento della Mathilde, il letterato non si preoccupò molto d’intendere l’autore del Tannhäuser, definito «corruttore della musica»; egli s’interessò anche alle opere teoriche del compositore germanico, definendole «ciarlatanerie».

Nonostante la moglie, Maria, fosse una musicofila, il De Sanctis, negli ultimi anni della sua vita, non sviluppò maggior attenzione per le cose musicali, confermando la superficialità dell’esperienza artistica, anche se nei suoi problemi critici si richiama continuamente alla musica, quale simbolo di pura e vuota forma, «esaurimento della vita interiore».

«La parola è potentissima quando viene dall’anima e mette in moto tutte le facoltà dell’anima nei suoi lettori: ma, quando al di dentro è vuoto e la parola non esprime che se stessa, riesce insipida e noiosa. Allora la vista materiale, il colore, il suono, il gesto sono ben più efficaci alla rappresentazione che quella morta parola20», «[…] poiché l’arte –  scrive il Croce – che il De Sanctis considerava come un originale aspetto dello spirito e della storia, e giudicava nella sua potenza di arte, non fu mai pensata altrimenti che nell’unità dello spirito e della storia. La concretezza e l’armonia del suo intelletto erano qui rafforzate dall’essere egli uno degli uomini, uno dei pensatori, uno degli scrittori del Risorgimento italiano, che fu un interiore rinnovamento intellettuale e morale delle classi dirigenti21».

Nella metodologia critica, il De Sanctis contrapponeva frequentemente l’epico, l’eroico e il tragico all’idillico ed all’elegiaco, classificazioni psicologiche non paragonabili a canoni e misure di giudizio estetico. Secondo queste classificazioni salvò poeti come il Petrarca, Ariosto, Tasso e lo stesso Metastasio. A proposito dell’esame sulla «Divina Commedia», è noto che prediligesse l’«Inferno» per le passioni umane, possenti, telluriche e per il rilievo e la figurazione evidente e netta, cruda ed efficace delle situazioni e degli ambienti del vario ambiente infernale, rispetto alla poesia estatica, evanescente indefinita e diffusa del «Paradiso», quale lirica musicale nella descrizione della manifestazione dello spirito di Dio «in una forma sempre più sottile sino al suo compiuto sparire».

«Nell’Inferno signoreggia la materia anarchica: le sue forme ricevono ogni sorte differenze spiccate, distinte, corpulente e personali. Nel Purgatorio, la materia non è più la sostanza, ma un momento: lo spirito acquista coscienza di sua forza, e, contrastando e soffrendo, conquista la sua libertà: la realtà vi è in immaginazione, rimembranza del passato da cui si sprigiona, aspirazione all’avvenire a cui si avvicina; onde le sue forme sono fantasmi e rappresentazioni dell’immaginativa, anziché obbietti reali: pitture, sogni, visioni estatiche, simboli e canti. Nel Paradiso lo spirito, già libero di grado in grado, s’india; le differenze qualitative si risolvono, e tutte le forme svaporano nella semplicità della luce, nella in colorata melodia musicale, nel puro pensiero». E ancora: nel «Paradiso i moti delle anime sono danze, le loro voci sono canti; ma in quell’accordo di voci, in quel turbine di movimenti, la personalità scompare: è una musica in cui i diversi suoni si confondono e si perdono in una sola melodia. Non ci è differenza di aspetto; ma per dir così una faccia sola. Questa comunanza di vita è il fondo lirico del Paradiso, ma è la sua parte fiacca. I canti delle anime sono vuoti di contenuto, voci e non parole, musica e non poesia22».

De Sanctis conclude nell’escludere dalla grande poesia alcuni temi, moti e stati dell’anima, poiché indice di una tendenza contemplativa, per manifesta indifferenza ed assenteismo politico o di fiacchezza morale. Il suo carattere decisamente etico e fattivo non esplorò il tenero, l’idillico, l’elegiaco, poiché prevalse, come scriveva il Croce, «un arbitrario ideale della passione violenta» insieme ad un «estetico verismo o realismo23». Non riuscì quindi a comprendere quanta parte avesse la musica non soltanto alla poesia pastorale e melodrammatica, nell’ottava ariostesca ed in quella romantica, e nelle strofette metastasiane, ma in ogni forma di poesia.

Il suo «amico» Wagner, per merito del linguaggio musicale, riuscì a scavare nell’anima torbida e passionale di Tristano, così come tratteggiò individuali, corporee ed inconfondibili figure e attraverso i suoni manifestasse sostanza all’ira, alla magnanimità, allo sdegno, alla vendetta, alla veemenza, al capriccio così come alla varia umanità degli eroi e degli dei della Tetralogia.

Ciò però non fu colto da Francesco De Sanctis.

(1) DE SANCTIS, La giovinezza, ediz. Cortese, Morano, Napoli 1931: pp. 142 – 143.)

(2) DE SANCTIS, La letteratura italiana nel secolo XIX – Lezioni raccolte da Francesco Torraca, edite con prefazione e note di Benedetto Croce, IV ediz., Morano, Napoli, 1914, p. 188.

(3) Storia della letteratura italiana, Morano, Napoli, 1921, II, 137

(4) Op. cit. II, 138.

(5) Ibidem, 145.

(6) Op, cit. II, 157.

(7)  DE SANCTIS, Pagine sparse, nella Critica, X, 1912, p. 148.

(8) Ibidem, p. 151.

(9, 10) La letteratura italiana nel secolo XIX, cit., pag. 16.

(11) La letteratura italiana nel secolo XIX, cit., pag. 18.

(12) DE SANCTIS, Studio su Giacomo Leopardi, op. postuma a cura di Raffaelle Bonari, Morano, Napoli, 1885, pp. 116 – 17.

(13) DE SANCTIS, op. cit. pp. 41.

(14) DE SANCTIS, La giovinezza, pp. 119 – 20.

(15) DE SANCTIS, Appendice alla II edizione (1883) del Saggio sul Petrarca, pubblicato nella riedizione crociana del 1907, p. 307 sgg.

(16) Lettere a Virginia, Laterza, Bari, 1917, pp. 50 – 51.

(17) CROCE, Il De Sanctis in esilio, nella Critica, XII, 1914, p. 271.

(18) CROCE, Art. cit. in Critica, 1914, p. 280.

(19) CROCE, Riccardo Wagner e Francesco De Sanctis, in Critica, XXVIII, 1930, pp. 393 – 95.

(20) Ibidem, p.278.

(21) CROCE, Una famiglia di patrioti ed altri saggi storici e critici, Laterza, Bari, 1919, p. 286.

(22) Per queste e le precedenti citazioni, delle quali, per brevità, si è scelto di non creare un riferimento bibliografico, vedasi il capitolo della Storia della letteratura italiana, dedicato alla Divina Commedia.

(23) CROCE, La poesia di Dante, Laterza, Bari, 1921, p. 194.

Lascia un commento

search previous next tag category expand menu location phone mail time cart zoom edit close