10 Settembre 2012. “Pieta” di Kim Ki Duk

La vittoria della Coppa d’oro al “Festival del cinema di Venezia” di Kim Ki Duk, regista cult coreano, è stata riportata, con grande enfasi, sulle prime pagine di tutti i quotidiani nazionali. Il regista, poco amato in patria, da diversi anni riscuote successo e miete vittorie nei diversi festival internazionali, grazie ad una poetica estremamente personale e soggettiva in grado di colpire sempre non solo le Giurie, ma anche il pubblico di tutto il mondo. Rispetto alla consueta e consolidata cinematografia coreana, Kim è un battitore libero, è fuori dal coro, è contro. In passato, ho molto apprezzato “Primavera, Estate, Autunno, Inverno…” e “Ferro 3. La casa vuota”. Il primo film è il racconto di una parabola buddhista nell’incanto della natura, mentre nel secondo la trama del film si snoda tra sogno e realtà, laddove alla fine non si sa dove termini l’uno ed inizi l’altro. Kim ha dichiarato che, per mancanza di fondi, ha dovuto girare i suoi film in pochissimi giorni; conferma del fatto che, per realizzare un’opera d’arte non è la quantità, ma la qualità e del come s’impiega il tempo a disposizione. 
La proiezione del film è avvenuta all’interno di Megabox, che si trova nel centro commerciale Coex. La sala della proiezione è la più piccola: appena 50 poltrone. Dopo aver effettuato il pagamento del biglietto, mi dirigo verso il secondo piano e la sala si trova in fondo: è l’ultima. Noto all’interno diverse teste, imbiancate dal tempo e signore elegantemente vestite, qualche membro della leva giovanile prende posto, quando inizia la consueta dose massiccia di pubblicità. In generale l’età media degli spettatori, almeno per questo spettacolo, è medio alta.
Kim non ci mostra la Corea scintillante e sfavillante dei lussuosi centri commerciali, le luci dei mille grattacieli con i loro velocissimi ascensori. Non ci parla delle bellissime e civettuole signorine, che spesso si accompagnano a muscolosi giovanotti alla guida di macchinoni. No: i protagonisti, in questo splendido film, sono gli ultimi, i diseredati, gli sconfitti, le persone, alla cui finestra della camera da letto, i sogni non bussano più durante la notte. Questi derelitti vivono in ambienti sporchi, degradati, inumani, dove neanche la luce del sole ha voglia di far sentire il suo calore; infatti in quei posti il cielo è sempre grigio, scuro, pesante, sembra rispecchiare fedelmente l’anima di questi sopravvissuti, che – magari – aspettano la morte e la considerano come l’estrema ed ultima liberazione da un vissuto orrendo ed implacabilmente terribile. Tra questi derelitti, si aggira il protagonista maschile (Lee Jung-jin), un bruto, che riscuote crediti per gli usurai. Purtroppo, tante le persone, che non possono pagare il pesantissimo convenuto e, nonostante le implorazioni, agisce con una violenza inaudita, rendendoli storpi o, addirittura, amputa loro le mani. Siccome la maggior parte dei disgraziati sono dei fabbri, che lavorano tutto il giorno all’interno di una botteguccia lerciosa, ecco che il delinquente usa gli stessi loro strumenti di lavoro, per deturparli o un orrendo coltellaccio, che porta sempre con sé, unico compagno di un vita, dedicata al male. Egli non ha amici, non ha parenti, vive in uno squallido appartamento poveramente ammobiliato. La sua opera di “menomatore” continuerebbe per sempre, se, nel suo orizzonte, non apparisse, improvvisamente, come in un sogno, una donna (la, a tratti, struggente Cho Min Soo).
Chi è costei? Perché? Perché bussa alla porta di questo criminale ed inizia a rassettargli la casa, a preparare il pranzo, ad accudire le sue poche cose? Chi è costei? Il bruto, che vive nel trionfo della sua amoralità, reagisce con la violenza; non vuol avere alcun contatto con quest’anima, che vorrebbe prendersi cura di lui. Arriva anche a violentarla! Ella, dopo la violenza subita, dichiara di essere sua madre e gli chiede perdono, perché gli fece mancare l’affetto materno, perché non si prese mai cura di lui, perché non svolse, fino in fondo, il ruolo di mamma.
Avrebbe davvero, il protagonista maschile, novello Edipo, fatto l’amore con sua madre?
La vita da delinquente continua senza sosta, così come continuano le cure, sempre più pressanti, precise, puntuali, amorevoli di una mamma, che vorrebbe con la forza dell’amore, redimere la vita di un figlio, che ha perduto e che ora, dopo tanti anni, ha ritrovato, chissà per quale motivo.
Un poco alla volta, il bruto inizia a cambiare atteggiamento verso la ritrovata madre (?) tanto che si recano insieme ad un negozio del centro di Seul (ed è l’unica scena, in cui si vede lo sfavillare del lusso), per acquistare dei vestiti e degli occhiali. Ci avviciniamo all’agghiacciante epilogo finale; un delirio di violenza sempre più selvaggia e terribile investe il protagonista, impegnato a colpire con inaudita cattiveria le sue sventurate vittime. La redenzione, però, si avvicina.
In un gioco simbolico, sempre più coinvolgente, le vite dei due protagonisti sembrano legarsi indissolubilmente, verso l’unica soluzione possibile. (Non sarò certo io a svelare l’incredibile colpo di scena finale).
La regia di Kim Ki Duk è tetra, oscura, ci presenta una Seul bagnata di pioggia, di disperazione, sporca, ambientazioni sporche, maleodoranti, abbandonate, una realtà, che sta miseramente crollando sotto i colpi della misera, una Seul, che annega, si ritorce su se stessa. I poveri sventurati, rappresentanti di quel “sottoproletariato”, tanto caroo a Pier Paolo Pasolini, sono in balia di una forza terribile, che li schiaccia, li soffoca, li rende delle larve ed impotenti davanti ad un destino orrendo.
Ottima l’interpretazione maschile di Lee Jung Jin, un uomo senza umanità, i suoi occhi sono senza sguardi, le sue mani sono solo degli strumenti di morte ed in lui non c’è spazio per la “pietas”. Intensa, struggente, appassionatamente disperata Cho Min Soo (la madre?), sconvolgente nella scena, che più mi ha colpito, quando piange in preda ad un fortissimo dolore, che le sta dilaniando l’anima.
Il pubblico in sala commentava negativamente la visione di scene troppo “forti”, dove la violenza non è filtrata, ma presentata “nuda e cruda”, davanti agli occhi di chi guarda, come un terribile ammonimento a non commettere il male. Qualcuno addirittura se n’è andato prima della fine. A conclusione del film, la tensione era palpabile.
Questo film è davvero un pugno allo stomaco.


P.S. Ringrazio il mio fraterno amico Paolo (nome italiano di un cittadino coreano), senza il quale sarebbe stato impossibile scrivere questo Post.

Kim Ki Duk

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