La stanza della Segnatura (seconda parte)

Il 20 febbraio 1513 morì Giulio II Della Rovere ed il 9 marzo salì al soglio Leone X De Medici, figlio del Magnifico, che si sarebbe dimostrato, per tradizione familiare e propria, un gran mecenate, protettore e cultore delle belle arti. Quando vestì la porpora cardinalizia, raccolse presso il suo palazzo in Roma un gran numero di artisti e letterati. Colmò Raffaello di gloria ed onori, affidandogli molte ordinazioni e spingendolo verso diversi incarichi; gli ingiunse di terminare la decorazione della Stanza dell’Eliodoro e delle stanze successive, quindi volle che ornasse le logge erette dal Bramante, a cui successe quale architetto e direttore della costruzione della colossale Basilica di S. Pietro. Lo nominò altresì soprintendente a tutte le fabbriche pontificie e degli scavi di antichità; ed infine si fece ritrarre tra i cardinali Giulio De Medici e Luigi Rossi. Fu impiegato quale scenografo per le rappresentazioni recitate di fronte al Santo Padre, scritte da cardinali ed altri letterati della Corte pontificia, contentando le richieste degli alti prelati. Al fine di soddisfare le esigenti itanze, impiegò diversi allievi e collaboratori presso la sua bottega, i quali lo avrebbero aiutato nella dipintura, traendo per sé il concepimento dell’invenzione.

L’argomento della terza pittura nella Stanza dell’Eliodoro fu La ritirata di Attila per virtù di Papa Leone il Grande, perché s’illustrasse la liberazione del patrimonio di S. Pietro dagl’invasori, grazie all’impero della Chiesa. Seppur l’argomento fosse stato illustrato da Giulio II all’artista, il nuovo Pontefice chiese alcune modifiche: la scena fu trasferita dall’iniziale Mincio nelle vicinanze di Roma; la figura del Papa, coi lineamenti di Leone X, fu spostata dal fondo della scena all’inizio, ponendole con la sua corte di fronte ad Attila.

La scena presenta il disordine delle truppe unniche, alle cui spalle hanno lasciato solo delle macerie, mentre recita la quieta grandiosità della campagna romana; dall’alto le figure di S. Pietro e S. Paolo appaiono come un atto sovrannaturale.

Il quarto ed ultimo soggetto fu scelto dal Pontefice: La liberazione di S. Pietro dal carcere, in ricordo della prigionia sofferta a seguito della battaglia di Ravenna (1512), tra la Lega Santa costituita da Giulio II e la Lega di Cambrai guidata da Gaston De Foix ed alla successiva, provvidenziale liberazione.

La scena fu divisa dal Raffaello in tre parti; approfittando di una zona, vicina ad una finestra, fu in grado di creare effetti di luce e contrasti assai indovinati, irradiati dall’angelo sulla prigione, occupata da detenuti illuminati dalla luce della luna e di un’ulteriore fiaccola accesa e recata dal capo delle guardie. Nella volta dipinta da Baldassarre Peruzzi, Raffaello non apportò cambiamenti, ad esclusione dei quattro medaglioni (Noè, Abramo, Mosè e Giacobbe) commossionati ai suoi allievi.

La terza sostanza, poi detta dell’Incendio di Borgo, incominciata durante l’estate del 1514, non rappresenta l’apice della produzione raffaellita; l’artista preferì porre mano, per ultimare il lavoro iniziato dagli allievi, così come confermato dal Vasari scrisse: «gli ignudi che fece bella camera, dove è l’incendio di Borgo nuovo, ancora che siano buoni non sono in tutto eccellenti, del che fu in gran parte cagione l’avergli fatti colorire ad altri col suo disegno1».

Le dipinture della Stanza assai interessanti sono L’incendio di Borgo, scoppiato nel 847 e spentosi miracolosamente dal Pontefice Leone IV con il Segno della Croce; La battaglia di Ostia, in cui nell’849 le truppe pontificie avevano sconfitto la flotta saracena; L’incoronazione di Carlo Magno per mano di Leone III nell’800; quindi Il giuramento di Leone III, il quale col pronunciamento Dei non hominis est episcopos judicare, si era discolpato delle accuse mossegli.

Nell’Incendio di Borgo, si allude all’opera pacificatrice di Leone X in un’Italia martoriata dalle guerre e dalle invasioni straniere; La battaglia di Ostia avrebbe voluto rammentare la pericolosità dei turchi per la civiltà cristiana; L’incoronazione di Carlo Magno riproponeva la supremazia temporale della Chiesa sull’Impero; nel Giuramento, si desiderava ricordare l’esclusione dalle colpe del Pontefice al termine del Concilio lateranense (1512). La Stanza fu conclusa nel 1517, lasciando intatta la decorazione della volta del Perugino.

Nell’ultima Stanza, fu raccontata la Storia di Costantino, dei ritratti di alcuni illustri Pontefici e di figure allegoriche, al fine di dimostrare il trionfo della Chiesa, ma gli studi per la realizzazione presero molto tempo all’artista, che sarebbe morto di lì a tre anni. Riuscì a completare La giustizia e La mansuetudine, lasciando appena abbozzata la battaglia in cui Costantino sconfigge Massenzio, che fu completata dal suo allievo, Giulio Romano, il quale avrebbe poi rilevato il maestro dalla funzione di direttore.

Raffaello agì freddamente nel concepimento e ideazione delle dipinture, perché preso da molte commesse distraenti e guidato soprattutto dalla volontà del Pontefice. Riuscì a librare la sua anima, nel concepire i cartoni, da tradurre in tappezzeria, per gli apostoli Pietro e Paolo, dove fu lasciato libero di creare, che avrebbero congiunto Michelangelo e l’Urbinate nella Cappella Sistina. Per la commessa di dieci cartoni selezionò i suoi due migliori allievi: Gian Francesco Penni detto il Fattore e Giulio Romano, che lo aiutarono a completare il lavoro in due anni, salvo spedirli Arras (donde la denominazione arazzo), per la realizzazione di Pieter Van Aelst.

Il 26 dicembre 1519, furono appesi alle pareti della Cappella Sistina: La pesca miracolosa, La consegna delle chiavi a S. Pietro, La guarigione dello storpio, La morte di Anania, La conversione di S. Paolo, Elima colpito da cecità, San Paolo a Listra, S. Paolo in Atene, S. Paolo prigioniero a Filippi, La lapidazione di S. Stefano.

Attualmente, le tappezzerie hanno trovato ricovero sotto un vetro nella Pinacoteca vaticana; invece, dei cartoni originali ne sono stati conservati sette ed appartengono all’Albert Museum di Londra. Si ammira la nobiltà e la grandiosità dello stile, figurati anche nella varietà delle scene rappresentate in sapiente architettonica prospetticità, pur nel rispetto degli stilemi dell’Urbinate, incline alla dolcezza ed all’armonia.

Il Raffaello fu chiamato ad un’impresa ancor più grande, quando dovette decorare le logge costruite dal Bramante nel cortile di S. Damaso; affidò, sotto la sua attenta direzione, Giovanni da Udine di occuparsi del primo, riservando a sé il secondo, vicino alle Stanze.

Una fila di tredici campate è composta dai pilastri e dagli archi, ciascuna con una piccola volta a cupola e pennacchi, che avrebbero ricevuto le decorazioni delle storie dell’Antico e Nuovo Testamento tra svariatissimi fiori, frutti, fogliami, arabeschi, edicolette, animali fantastici, il riassunto di un mondo esemplare in parte a stucco bianco in bassorilievo, in parte dipinte a colori vivaci. In questo contesto, si esaltò il genio dell’armonia di Raffaello, che si pregiò di consegnare gli schizzi delle storie ai suoi allievi. La decorazione è chiamata a grottesche, perché esempi simili erano stati trovati sotterra, come nelle Terme di Tito, i cui scavi furono iniziati in quel tempo e che presentarono dei modelli incomparabili in bellezza, che furono appunto utilizzati dal Raffaello.

Lo studio e l’imitazione dell’antico furono animati dallo spirito nuovo, che creò uno stile particolare; un nuovo Rinascimento.

(1) Giorgio Vasari. Le vite; Rafael da Urbino, pag. 617 e seg. Einaudi, Torino 1986

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