Geltrude Cassi Lazzari, il primo grande, sfortunato amore di Giacomo Leopardi

Fu il primo grande, sfortunato amore di Giacomo Leopardi. Geltrude, nata nel 1791, era la moglie di Giovanni Giuseppe Lazzari, un uomo molto più anziano, che sarebbe scomparso nel 1828, cosicché la nobildonna sarebbe passata a seconde nozze.

Apparve a Giacomo bellissima, elegante, piena di vita e di spirito, amante del bel mondo, frequentatrice di eleganti convegni dell’eletta società, notandosi come una delle gentildonne più in vista nella natia Pesaro.

Nel dicembre del 1817, Geltrude condusse con sé la figlia Vittorina, settenne, a Recanati ospite di Monaldo, perché ricevesse fosse educata presso il monastero dell’Assunta.

Il Poeta fu immediatamente rapito dalla meravigliosa bellezza della Geltrude, allora ventiseienne, credendo di aver realizzato il suo ideale ineffabile di donna. La amò coll’intero delirio dei suoi diciannove anni.

Collocata la Vittorina nella dimora monacale, si trattenne per alcuni giorni in Recanati, rapendo il sonno a Giacomo, vittima di affanni e palpiti, di furori e smanie indicibili condotte da un sublime fantasticare. Fuggiva addirittura i «noti studi», era preda di angosciose melanconie e desiderava raccogliersi nel pensiero di colei che gli aveva acceso l’amore.

in ispregio ogni piacer, né grato

M’era degli astri il riso, o dell’aurora

Queta il silenzio, o il verdeggiar del prato.

Anche di gloria amor taceami allora

Nel petto cui scaldar tanto solea

Che di beltade amor vi fea dimora.

Né gli occhi ai noti studi io rivolga

E quelli m’apparian vani per cui

Vano ogni altro desir creduto avea1.

La passione gl’infiammò la fantasia, così la notte diventa un teatro di tenue e calda luce e l’immagine della donna gli procura una dolcezza tale che ne è quasi sopraffatto.

Oh, come viva in mezzo alle tenèbre

sorgea la dolce imago, e gli occhi chiusi

la contemplavan sotto alle palpèbre!

oh, come soavissimi diffusi

moti per l’ossa mi serpeano! oh, come

mille nell’alma instabili, confusi

pensieri si volgean!1

I giorni purtroppo volarono e così la Geltrude tornò nella natia Pesaro, gettando nella più cupa disperazione il Giacomo, il quale avrebbe in versi raccontato il giorno della partenza.

Senza sonno io giacea sul dí novello,

e i destrier, che dovean farmi deserto,

battean la zampa sotto al patrio ostello.

Ed io, timido e cheto ed inesperto,

ver’ lo balcone al buio protendea

l’orecchio avido e l’occhio indarno aperto,

la voce ad ascoltar, se ne dovea

di quelle labbra uscir, ch’ultima fosse;

la voce ch’altro il cielo, ahi! mi togliea.

Quante volte plebea voce percosse

il dubitoso orecchio, e un gel mi prese,

e il core in forse a palpitar si mosse!

E poi che finalmente mi discese

la cara voce al core, e de’ cavai

e delle rote il romorio s’intese;

orbo rimaso allor, mi rannicchiai

palpitando nel letto e, chiusi gli occhi,

strinsi il cor con la mano, e sospirai1.

Il 22 dicembre 1817, scrisse al suo amico Giordani:

«La salute adesso mi lascia fare qualche cosa, ed io son tornato alle mie vecchie malinconie, e mi rallegro di potermi pur affliggere per altro che per la infermità, che è bene un’afflizione sterile e sgradita. Del Tasso ancora non vi so dire niente, perché questi giorni ho avuto da leggere alcune altre opericciuole che m’han rubato molto tempo: oltreché ho voluto anche dare un’occhiataccia a quelle cruscate e stacciate e ‘nfarinature e ‘nferrignerie che stanno intorno alla Gerusalemme, la qual cosa m’ha portato più avanti ch’io non credea né volea. E liberatomi da questa noia, m’è accaduto per la prima volta in mia vita di essere alcuni giorni, per cagione non del corpo ma dell’animo, incapace e non curante degli studi in questa mia solitudine. Nondimeno tornerò benché con svogliatezza al Tasso e alle altre letture; anzi già facendomi violenza ci sono quasi tornato e ve ne scriverò2».

La Geltrude sarebbe tornata a Recanati nella primavera del 1818 e, per celebrare il ritorno dell’amata, il Leopardi licenziò l’«Elegia II2».

Dove son? dove fui? che m’addolora?

Ahimè ch’io la rividi, e che giammai

Non avrò pace al mondo insin ch’io mora.

………………………………………………………

Meglio era ch’i’ morissi avanti ch’io

Rivedessi colei che in cor m’ha posto

Di morire un asprissimo desio

………………………………………………………

Ahi ahi, chi l’avria detto? appena il credo:

Quel ch’io la notte e ’l dì pregar soleva

E sospirar, m’è dato, e morte chiedo.

La ripartenza della donna fu occasione di un pianto inenarrabile; avrebbe voluto che si scatenassero gli elementi, per trattenerla ancora, ma il cielo sembrò non ascoltare i desiderata del Poeta, aprendosi ad uno splendido giorno di sole.

Intanto io grido, e qui vagando intorno,

Invan la pioggia invoco e la tempesta

Acciò che la ritenga al mio soggiorno.

Pure il vento muggia ne la foresta,

E muggia tra le nubi il tuono errante,

In sul dì, poi che l’alba erasi desta.

………………………………………………………

S’apre il ciel, cade il soffio, in ogni canto

Posan l’erbe e le frondi, e m’abbarbaglia

Le luci il crudo Sol pregne di pianto2.

Questo amore non fu mai rivelato alla donna:

O donna, e tu mi lasci; e questo amore

Ch’io ti porto, non sai, né te n’avvisa

L’angoscia di mia fronte e lo stupore.

Tornò il desiderio del morire, asprissimo:

Segui, m’ardi, mi strazia, a tuo diletto

Spegnimi o Ciel; se già non prima il core

Di propria mano io sterpomi dal petto.

Il ritorno agli studi fu l’unico vero rimedio a quella tristissima delusione amorosa.

Egli ora torna ad inseguire la gloria.

(1) GIACOMO LEOPARDI. Canti; Il primo amore.

(2) Canti.

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