Dal «Viaggio in Italia» di Johann Wolfgang Goethe: Napoli

Il 25 febbraio 1787, Goethe giunse a Napoli, dopo un viaggio avvenuto nel freddo della tramontana; verso il mezzogiorno sostò a Capua e si «arriva per tal guisa a Napoli, traversando una contrada di terreno fertile, leggiero, diligentemente coltivato, dove i tralci delle viti, rigogliosi quanto mai si possa dire, si stendono da una pianta di pioppo all’altra, formando quasi una specie di rete». Dal maestoso Vesuvio, sprigionavano «vortici di fumo, ed io me ne stava silenzioso, assaporando la soddisfazione di potere contemplare pure questo fenomeno meraviglioso» sotto un cielo stavolta riempito dal sole, che riscaldava i tanti napoletani, che sostavano in strada.

«I Napoletani ritengono possedere il paradiso, ed hanno una tristissima idea delle contrade settentrionali: “Sempre neve, dicono, case di legno; grande ignoranza, ma danari assai”. Tale si è l’idea poco lusinghiera, che si formano dei nostri paesi».

Goethe rimase sorpreso dall’aspetto di Napoli: «lieto, animato, vivace; la folla inonda le strade, si agita in quelle; il re si trova a caccia, la regina è di buon’umore; le cose non potrebbero andar meglio».

L’indomani, vergò di aver preso albergo presso «la locanda del signor Mariconi, al Largo del Castello – ospitato – in una vasta sala d’angolo, la quale prospetta sulla piazza, sempre affollata di persone. Corre davanti a parecchie finestre un balcone, con ringhiera in ferro , il quale gira pur anco attorno alla cantonata.  La sala è dipinta a vivaci colori, ed i rabeschi specialmente dei vari scompartimenti del soffitto, accennano la vicinanza di Ercolano e di Pompei». Il Poeta lamentò la deficienza del riscaldamento, limitato ad un treppiede ed una «bacinetta ripiena di carbone minuto, acceso, e ricoperto di ceneri», che avrebbero causato al Goethe una leggera indisposizione.

Jacob Philipp Hacert /1737 – 1807)

Il 27 febbraio, annotò la bellezza della «spiaggia, il golfo, il porto, il Vesuvio, la città, i sobborghi, i castelli, le passeggiate! Siamo stati pure, verso sera, alla grotta di Posillipo, nel momento appunto in cui all’estremità opposta tramontava il sole».

Il 28 febbraio 1787, si recò in visita presso il pittore paesaggista Jakob Philipp Hackert. Il 1 marzo gita a Pozzuoli, che commentò: «un breve tratto di strada per terra, passeggiate piacevoli nella contrada la più amena del mondo. Il suolo più infido, sotto il cielo più limpido! Acque bollenti, grotte le quali sprigionano vapori zolforosi, monti calcari, decomposti, selvaggi, ostili alla vita delle piante, ed ad onta di ciò, vegetazione rigogliosa quanto si possa vedere dovunque; la vita che trionfa sulla morte; stagni, ruscelli, e per ultimo una foresta stupenda di querce, sulla pendice di un antico volcano». La sera, nella sua locanda, Goethe lavorava sulla «Ifigenia in Tauride», di cui lesse tratti a degli amici tedeschi residenti in Napoli.

Il 2 marzo, annotò della scalata al Vesuvio, percorrendo delle vigne a cavallo di un mulo, quindi proseguì a piedi. Appena giunse in cima, scrisse che il «monte era ricoperto per un terzo dalle nuvole. Finalmente arrivammo all’antico cratere, ora riempito; trovammo lava recente di due mesi, di quindici giorni, di quella pure recentissima di cinque giorni, già raffreddata. Varcata quella, arrivammo ad una sommità volcanica, dove il fumo usciva da ogni parte; il vento però lo allontanava alquanto da noi, ed io volli avvicinarmi al cratere, se non che, fatti forse una cinquantina di passi il fumo diventò così fitto, che a mala pena poteva vedere i miei piedi. A nulla mi giovava il tenere il fazzoletto davanti alla bocca; avevo perduto di vista la mia guida pure; il camminare sulle scorie eruttate dal volcano diventava pericoloso, e ritenni prudente ribattere strada, e riservarmi ad altra giornata più chiara, ed in cui fosse minore il fumo, per godere la vista che io mi riprometteva».

Il 2 marzo, Goethe scrisse delle differenze tra Roma e Napoli; la prima scontava – a suo dire – una posizione geografica infelice, mentre la seconda il: «mare, le navi, porgono, desse pure, spettacolo affatto nuovo».

Francesco Solimena – La cacciata dal tempio di Eliodoro (Chiesa del Gesù nuovo, Napoli)

Il 3 Marzo, il Poeta descrisse le impressioni legate a visite effettuate in alcune chiese napoletane, soffermandosi sulla Cacciata di Eliodoro dal tempio, presso la Chiesa del Gesù Nuovo di Francesco Solimena.

Un’altra esperienza degna di nota fu la «notte splendida di plenilunio passeggiando per le strade, per le piazze, a Chiaia, nel giardino pubblico lungo la spiaggia del mare».

Gaetano Filangieri (1753 – 1788)

Il 5 marzo conobbe «un uomo distintissimo», il filosofo Gaetano Filangieri, «rinomato per la sua opera sulla legislazione. Egli appartiene a quella gioventù pregevolissima, la quale si propone la felicità dell’uman genere, ed una libertà temperata. Il suo contegno rivela ad un tempo il militare, il cavaliere, l’uomo di mondo, raddolcito però dall’espressione di animo gentile, sensibile, il quale si palesa in tutta la sua persona, in ogni sua parola, in ogni suo atto. Egli pure è devoto in fondo al suo re, alla monarchia, tuttoché non approvi tutto quanto accade; ma egli pure trovasi invaso dal timore di Giuseppe II. L’imagine di un despota, per quanto possa essere vaga, basta ad incutere timore all’uomo dabbene. Egli mi parlò con tutta franchezza di quanto Napoli aveva a temere da quella parte. Parlò pure volontari di Montesquieu, di Beccaria, de’ suoi scritti stessi, e sempre nel senso di un animo mite, buono, mosso da intenso desiderio giovanile di operare il bene. Non avrà guari più di trent’anni».

Il Filangieri lo presentò ad «un vecchio scrittore, che i giovani italiani, i quali propendono per le idee nuove, tengono in singolare pregio per la profondità somma del suo ingegno, e che pongono al di sopra di Montesquieu. Egli ha nome Giovanni Battista Vico. Da un rapido colpo d’occhio dato al libro di questi, il quale mi venne affidato quale oggetto sacro, mi pare contenga pronostici sibillini del retto e del bene che verrà un giorno, ovvero che dovrebbe venire, derivandoli da serie considerazioni intorno alla tradizione, ed alla vita».

Johann Tischbein (1751 – 1829)

Il 6 marzo 1787, nuova visita al Vesuvio in compagnia dell’amico, il pittore, Johann Tischbein:

«Partimmo in due carrozzelle, fra mezzo al brulichio di persone, le quali formicolano per la città. Il cocchiere, o vetturino che sia, è obbligato a gridare di continuo largo! Largo! per aprirsi il varco senza fare danno a veruno, in quel vortice». Goethe notò come il terreno fosse coperto di sinistra «polvere cenerina», avvicinandosi la meta; fortunatamente «soltanto l’azzurro del cielo, e lo splendore del sole, valevano a far testimonianza, che non ci trovavamo già nel regno delle ombre, ma bensì ancora fra gente viva».

Terminata la salita, i due artisti furono ricevuti da due guide, «uno giovane e l’altro più attempato, uomini forti però entrambi, e robusti». Arrivati in cima, assistettero allo spettacolo – tenendosi a debita distanza – della vita del vulcano, il quale «erutta sassi e ceneri, spettacolo propriamente grandioso. Si udiva dapprima quasi un cupo rumoreggiare di tuono, nelle profondità dell’abisso; quindi si scorgevano a migliaia sassi di varie dimensioni lanciati per aria, circondati da una nuvola di ceneri. La maggior parte di quei sassi ripiombavano nell’abisso; gli altri rotolando da ogni parte, lungo le pareti esteriori del cono, producevano un fracasso d’inferno; i più pesanti ripiombando nell’abisso, producevano un tonfo; i più piccoli facevano un rumore più acuto, e le ceneri crepitavano. Tutti questi fenomeni si succedevano ad intervalli regolati, dei quali, con attenzione, si sarebbe potuto benissimo misurare la durata».

Quindi, il solo Goethe, opportunamente accompagnato dalla guida, appena il vulcano sembrava placare la pioggia di sassi e cenere, si avvicinò ancor più alla bocca del vulcano.

«Ci trovammo allora sul margine dell’immensa voragine; un’arietta allontanava da noi il fumo, che usciva da innumerevoli fessure, e ci impediva di scorgere il fondo dell’abisso, in un intervallo di riposo del vulcano, potemmo scorgere qua e là le pareti sassose della voragine. Quella vista, per dir vero, non era né istruttiva, né piacevole; se non che, per la ragione appunto che non si vedeva nulla, ci fermavamo nella speranza di riuscire pure a vedere qualcosa. Trascurammo di badare agli intervalli delle eruzioni, ci trovammo propriamente sul margine della voragine quando tutto ad un tratto prese a rumoreggiare il tuono, e la scarica terribile ci passò davanti, sollevandosi in alto. Ci curvammo per un atto involontario, quasi avesse ciò potuto garantirci dalla caduta dei massi, i lapilli continuavano a scoppiettare, quando senza pensare che avessimo potuto approfittare di un intervallo di riposo, lieti di essere scampati al pericolo, ruzzolammo in tutta fretta alla base del cono, dove arrivammo coperti tutti di cenere».

Terminata la gita, i due artisti rientrarono a Napoli e Goethe osservò delle casupole «di forma strana, ad un solo piano, e senza finestre di sorta, per modo che le stanze ricevono luce unicamente dalla porta, la quale si apre sopra la strada».

Il 9 marzo, Goethe si lamentò per l’instabilità atmosferica, pur cogliendo la bellezza del mare in tempesta, tanto da «studiare ed ammirare la forza delle onde; la natura si è pure il solo libro che offra ammaestramenti sublimi ad ogni pagina».

Al contrario mostrò sulla carta tutta la sua insoddisfazione per le opere teatrali, poiché, essendo tempo di Quaresima, avevano luogo solo rappresentazioni a carattere sacro, non molto dissimili da quelle profane. Si recò al Teatro S. Carlo, per assistere a «La distruzione di Gerusalemme», su libretto di Carlo Sernicola e musica di Giuseppe Giordani, ma non ebbe piacevoli sensazioni.

La mattinata invece la trascorse presso il Museo di Capodimonte, dove notò che «tutto trovasi allogato alquanto alla rinfusa; però vi sono oggetti molto pregevoli».

Il giorno 11, trasferimento a Pompei, accompagnato dall’amico Tischbein, per «vedere attorno a noi, alla nostra destra ed alla nostra sinistra tutte quelle viste stupende, le quali ci sono note per le molteplici stampe, ci apparvero queste nel loro complesso più meravigliose ancora. Pompei reca stupore poi ad ognuno, per le sue dimensioni ristrette e meschine. Sono strettissime le strade, tuttoché fornite da ambi i lati di marciapiedi; le case piccole, senza finestre, e le stanze illuminate unicamente dalle porte, le quali si aprono nelle coni, ovvero nei portici che circondano queste. Gli edifici pubblici stessi, il foro presso la porta, il tempio, una villa pure presso questo, si direbbero piuttosto trastulli da ragazzi, modelli in piccole dimensioni di edifici, anziché veri edifici. Quelle stanze poi, quegli anditi, quelle gallerie, sono tutte dipinte nel modo il più gaio, le pareti con un soggetto nel centro, attualmente rovinate per la maggior parte, ed i bordi e gli angoli con rabeschi leggeri, di gusto squisito, fra cui si vedono talvolta puttini, figure di ninfe, ed in altre, ghirlande ricche di fiori, animali addomesticati. Accenna per tal guisa la triste condizione di questa città, ricoperta per tanti secoli dai lapilli e dalle ceneri, ed ora risorta alla luce, a tale amore di tutto un popolo, per le arti figurative, di cui non può avere idea né senso, né provare bisogno ai giorni nostri, il dilettante, il conoscitore il più appassionato».

La sera del 12 marzo, Goethe si recò a casa della Principessa X, conosciuta, qualche sera prima, in casa del Filangieri.

«Entrai allora in una corte ampia, tranquilla, deserta, pulitissima, circondata dall’edificio principale, non che dagli accessori di un’abitazione signorile. Tanto l’architettura quanto le tinte, erano quelle generalmente in uso a Napoli, di aspetto allegro. Sotto l’atrio, di fronte a me, sboccava una ampia scala, comodissima a salire, e su quella erano disposti in ordine dai due lati lacchè in grande livrea, i quali mi fecero profondi inchini, mentre passavo fra mezzo ad essi.

Giunto in cima alla scala fui ricevuto da altri domestici, finalmente mi si aprì la porta di una vasta sala, la quale in tutta la sua ampiezza era vuota, e deserta di persone. Nel passeggiare su e giù per quella, potei vedere in una galleria laterale una tavola, stupendamente preparata, per quaranta persone all’incirca».

Fu quindi trattenuto a conversare con un abate, quando dall’apertura di due battenti, entra un signore attempato, verso il quale la coppia dei conversatori si avvicinò per le presentazioni di rito. Seguì l’arrivo di un monaco benedettino, «corpulento, accompagnato da un giovane fraticello». Quindi, via via, scorsero ufficiali, gentiluomini, sacerdoti, alcuni cappuccini: si compose un androceo; quando, da una porta,sbucò un’anziana signora, che diede inizio alla cena. I coniugi Filangieri arrivarono in ritardo e, chiedendo scusa, si accomodarono alla mensa; finalmente, per ultima, la Principessa X, che si diresse verso Goethe, invitandolo a prender posto accanto alla padrona di casa. Grazie alla vicinanza col Filangieri, Goethe poté conversare piacevolmente e ricevette l’invito di recarsi presso la dimora di Sorrento. 

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