Giosuè Carducci arrivò a Bologna nel novembre del 1860 e si allogò all’ultimo piano di un casamento di Piazza del Carbone, oggi Marescalchi. Quindi si spostò in una dimora, appartata e tranquilla per gli studi, vicina all’Università, Via Broccaindosso. In quest’ultima residenza, il Carducci si prestò ad una gran mole di lavoro, che sarebbe stata pubblicata dagli editori Nicolai di Pistoia, Barbera di Firenze e Zanichelli di Bologna. Ben presto l’appartamento si riempì sempre più di libri e nell’«Idillio di maggio» raccontò della vivace vita condominiale, cui partecipava il figlio, Dante:
A questo tuo, che tra cortili e mura
M’irride, etico raggio,
Io tempro una canzon forte e sicura,
E te la gitto, o maggio.
Si rese necessario un nuovo trasloco e il Professore scelse Palazzo Rispoli in Via Mazzini, dove trovò facili e grandi ispirazioni, cesellò i versi, che lo avrebbero reso ammirato e quindi famoso. Strinse, sempre più la collaborazione colla neonata Zanichelli, che tanto giovamento avrebbe trovato nelle pubblicazioni del Poeta delle «Odi barbare». Trascorsi alcuni anni, anche l’appartamento di Via Mazzini sembrò inadatto, nonostante avesse maritato le tre figlie; il numero dei libri cresceva spropositatamente, tantoché se ne trovavano dispersi ed ammonticchiati in ogni stanza. Nel 1889, trovò una nuova e definitiva sistemazione in un villino di Porta Mazzini.
La sua vita bolognese fu contrassegnata dalla solitudine (viveva quasi tutto il giorno in casa) e dalla profonda applicazione negli studi, che ebbe sempre ad amare. Al fine di non stancarsi, alternava con cautela diversi progetti letterari, trascorrendo qualche attimo di riposo, consigliato da uno psicologo e dal fisiologo. Ogni giorno, subito dopo il pranzo, si dedicava alla lettura dei quotidiani. A volte, trovava ispirazione anche quando passeggiava, per compiere piccole pratiche domestiche; come, una volta, a Roma, quando, camminando, su un pezzo di carta annotò:
Martino Lutero.
Due nemici ebbe, e l’uno e l’altro vinse,
Trent’anni battaglier, Martin Lutero;
L’uno il diavolo triste, e quello estinse
Tra le gioie de ‘l nappo e de ‘l saltero;
L’altro l’allegro papa, e contro spinse
A lui Cristo Gesù duro ed austero;
E di fortezza i lombi suoi precinse,
E di serenità l’alto pensiero.
— Nostra fortezza e spada nostra Iddio —
A lui dintorno il popol suo cantava
Con l’inno ch’ei gli die’ pien d’avvenire.
Pur, guardandosi a dietro, ei sospirava:
Signor, chiamami a te: stanco son io:
Pregar non posso senza maledire.
Durante la residenza bolognese, egli svolse, un poco alla volta, l’ampiezza degli studi e della conoscenza; da giovane traduceva Cicerone, Sallustio, Tacito, memorizzava Virgilio ed Orazio e si era costruito una salda fede latinista. Negli studi di letteratura italiana, amava il Trecento: «Non so come mi si rivelasse il Trecento; a un tratto mi sorpresi innamorato dei trecentisti, e pochi, credo, han letto più di me del Trecento»; e mal sopportava la prosa del Settecento: «la più vil prosa che schiavi abbiano mai scritto al mondo». Non ammirava i post – manzoniani Gioberti e il Guerrazzi, ma leggeva il Foscolo, Giordani, il Leopardi e soprattutto i «Promessi sposi» del Manzoni.
Gli studi filologici erano nati dalla scuola di Vincenzo Nannucci; la critica, fin dal ’59, era interessata alla prefazione delle «Poesie» di Lorenzo De Medici, in cui aveva gettato i semi delle idee sulla significazione del Quattrocento e del Rinascimento, che poi trasfigurerà all’interno delle rime e delle prose più tardi. A Bologna, avvicinò l’opera del Poliziano; fu indagatore della poesia volgare del Petrarca: «Io m’intendo di sole due cose al mondo — diceva una sera, scherzando; — di poesia volgare antica, e di sigari toscani». Commentò il Boccaccio, Machiavelli, il Cellini, il Manzoni, Parini e Foscolo, i cui studi furono raccolti nel «Dello svolgimento della letteratura nazionale».
Ammirò la letteratura greca, leggendo, più volte, l’«Iliade» nella versione del Monti, stimandola, in accordo col Leopardi, la miglior traduzione di Omero.
Amò anche la storia d’Italia e dell’Europa, sviluppando infinite ricerche sulle origini dei popoli e sulla nascita e la trasformazione delle varie civiltà italiane, la fusione e quindi le ragioni che determinarono le rivoluzione fino al presente assetto.
Studiò approfonditamente la filosofia, attingendo direttamente ai grandi classici greci; ammirò il Rosmini, di cui comprese l’alto intelletto, definendolo uno dei più grandi italiani. Dei filosofi stranieri, accostò il pensiero di Hegel, studiata all’Università di Bologna sin dal 1870.
Delle letterature straniere, preferì la francese, come Pascal e Bossuet; delle iberiche, puntò sulle manifestazioni medievali.
Nella biblioteca, spiccava per ricchezza la sezione dedicata alla letteratura tedesca, di cui si era mostrato un capacissimo traduttore.
Considerò William Shakespeare il più importante tra i poeti, anche se la sua predilezione fosse rivolta all’opera dello Shelley.
Seppe quindi assorbire con intelligenza le influenze delle principali letterature europee, al fine d’invigorire la vena creativa all’interno della classicità latina, introducendo all’interno della letteratura italiana molte novità, sia nella prosa che nella poesia.