«Poliuto» rappresenta il culmine della carriera compositrice italiana di Gaetano Donizetti, in cui esplora la complessità e l’ampiezza della struttura dell’arco creativo. Dal 1833, il compositore aveva visitato gli angoli più bui del romanticismo con opere quali, «Lucrezia Borgia» e «Maria di Rudenz». Dal 1839 al 1843, il musicista lavorerà tra l’Italia, Parigi e Vienna, innestando il processo d’internazionalizzazione dell’opera italiana, di cui «Poliuto» rappresenterà lo snodo fondamentale, mentre «Aida» e «La Gioconda» ne segneranno il culmine. «Poliuto» è un’opera in tre atti, composta nell’arco di un mese; raccolse in Compagnia cantanti estremamente celebri, ma – a prove ormai iniziate – il Re di Napoli, Luigi di Borbone, ne proibì l’esecuzione, poiché il soggetto trattato era di ambito religioso.

Il compositore, in una lettera al cognato, aveva espresso le sue perplessità a proposito del protagonista: un santo, quindi la Censura avrebbe posto il suo veto, ma continuò a credere nella realizzazione dello spettacolo anche in un contesto probabilmente diverso da quello napoletano.
La tragedia è tratta da «Polyceute, tragédié chrétienne» di Corneille del 1641 e, nonostante la derivazione aulica nell’intendimento donizettiano, la Censura negò il suo visto, quando il compositore si trovava a Parigi, dove avrebbe riadattato il suo «Poliuto» alle drastiche esigenze dell’Opéra (quattro atti, testo francese di Scribe, inclusione di ballet-divertissement), che l’avrebbe posta in scena nell’aprile del 1840.
La versione per il San Carlo non fu eseguita fino al novembre del 1848, dopo la morte del musicista, avvenuta otto mesi prima. Nonostante l’indubbia caratura ispiratrice del Lavoro non ebbe che poche felici rappresentazioni nel corso del tempo, disvelando ogni volta una compattezza ed uno slancio impetuoso. Laddove netta è l’esaltazione creatrice, ne «Les Martyrs» (versione francese del «Poliuto») si evidenzia fatica nell’elaborazione, al fine di non oltrepassare i limiti imposti dalla moda parigina. Parigi, in fondo, era una città estremamente importante per i nostri compositori, che avrebbero tentato il processo di sprovincializzare della loro vena creativa. Donizetti vi si reca, per la prima volta, nel 1835, per allestire il «Marin Faliero» al Théâtre Italien, luogo minore rispetto all’Opéra, che fruiva di forti sovvenzioni statali, di apparecchi scenici all’avanguardia, grazie ai quali si potevano costruire scenografie importanti. Nel 1836, torna a Napoli, per porre in scena «L’assedio di Calais», che si rivelò risvolti interessanti, ma non incontrò i favori del pubblico. Avrebbe voluto rappresentare all’Opéra «L’assedio», ma alla fine optò per il «Poliuto». Il protagonista di «Poliuto» sarebbe dovuto essere Adolphe Nourrit, uno dei più grandi tenori dell’epoca, che si trovava in grande crisi, poiché il suo rivale, GilbertDuprez, aveva «inventato» il «do di petto», rinunciando così al «falsettone», per eseguire le note acute, scatenando un diluvio di applausi nel circuito parigino.


Nourrit sperava in Italia – ed in modo particolare a Napoli (uno dei centri musicali più importanti d’Europa) – di trovare il maestro adatto alla sua vocalità, che gli avrebbe permesso di primeggiare con il celebre rivale. Nourrit era un uomo di grande cultura, una delle figure cardini per lo sviluppo del grand opéra francese; il grande Rossini aveva creato la parte di «Guillaume Tell» per la sua voce.

Egli fu un sicuro mentore per l’amico compositore, che fu edotto a proposito dei gusti del pubblico francese e dei meccanismi, che regolavano l’implacabile mondo teatrale parigino. Fu Nourrit a suggerire al compositore di porre in scena il «Polyceute» di Corneille, poiché si sarebbe riconosciuto nel carattere del protagonista, ispirato a temi religiosi.

Salvatore Cammarano, il più fidato librettista di Donizetti, fornì tutto il suo ingegno, per trasformare la tragedia di Racine in un libretto romantico italiano.
Cammarano bandì ogni scena di violenza; lavorò, per restituire senso della dignità della tragedia classica e neoclassica, alla scena, in cui Poliuto, annunciando pubblicamente la sua conversione al cristianesimo e certificando la sua messa a morte, ribalta l’immensa statua di Giove. Il personaggio di Stratonice fu stralciato e gli eventi, da lei narrati, fungono da stimolo per l’elaborazione del finale dell’atto secondo, preannuncianti gli effetti, che Verdi utilizzerà nell’«Aida». Donizetti chiese al suo librettista di rinforzare la debolissima vena amorosa e fu immediatamente servito coll’introduzione del sentimento della gelosia nella drammaturgia di Poliuto, che osserva nascosto l’incontro della moglie, Paolina, con Severo. Il secondo atto si apre con un duetto (forse il più interessante pezzo del Lavoro) tra Paolina ed il suo presunto amante, in cui marca la sua vulnerabilità, ma anche la sua forza interiore, che costruirà un’irresistibile barriera alle offerte amorose di Severo. Donizetti ben presto si accorse delle notevoli possibilità espressive dello sviluppo drammaturgico, irrorato ora anche dell’elemento amoroso, del «Poliuto», sicché fu pronto, nell’ambito della forma chiusa classica, di concepire una partitura monumentale, di profondità emotiva e varietà prospettica mai precedentemente raggiunti. Già nell’Ouverture, fonde elementi romantici con quelli classici: un Larghetto, affidato a quattro fagotti, introduce poi un’ampia forma – sonata, di libera ispirazione, tantoché il secondo tema è presentato nella Ripresa in un’altra tonalità. Nell’Esposizione ascoltiamo il tema della cabaletta del celebre duetto della prigione («Il suon dell’arpe angeliche»); nella Ripresa l’inno del neofita («O Nume pietoso»). Sono melodie legate all’avvenuta conversione di Poliuto, cui seguirà quello di Paolina, che condurrà i due amanti al martirio.
L’elemento romano è altamente esaltato nella scena dell’Atto Secondo (quadro 2), «Celeste un’aura al tempio move», che vede partecipi il Coro con Callistene e la medesima melodia è presentata alla fine dell’opera, dove s’intreccia contrappuntisticamente alla melodia «Il suon dell’arpe angeliche». Contrapponendo i due temi, che maggiormente caratterizzano l’elemento romano a quello cristiano esplode quindi il conflitto musicale, mentre sulla scena si assiste al cammino finale dei cristiani, che si consegnano alle fauci delle bestie del circo. Nonostante la concezione compositiva sia irreggimentata all’interno delle classiche forme chiuse, Donizetti pensa le singole scene in un continuum ideale, rappresentato dalla forte relazione nella scelta delle singole tonalità, su cui impostare la costruzione compositiva.
Un’opera che ha oltrepassato la sua epoca.
(12 settembre 2018)