Apollodoro o della musica

In questo dialogo discorrono Socrate, Simmia, Fidone, Critone e Gerone, il quale si rivolge agli astanti, raccontando la storia della sua vita.

Nato a Tria, sull’Alfeo, trascorreva le giornate cacciando nella tranquillità dei boschi; a vent’anni il trasferimento ad Atene alla ricerca della fortuna. Di tanto in tanto, riusciva a trascorrere brevi soggiorni nella casa paterna ed, un poco alla volta, si accorge del sostanziale distacco da quei sentimenti di piena comunione colla terra natale:

«[…] quel che mi parve mio non è poi mio in nessun modo, […] mentre il proprietario vero è il dio buono, al quale tutti renderemo conto dell’affitto, quando l’ora sarà venuta, e andremo all’Ade».

Ecco un primo pensiero, su cui indagare. L’uomo scambia spesso l’appartenenza con la proprietà; essere nati in una città non può significare un’identificazione totalizzante col luogo di nascita, così come coi beni, che acquistiamo incessantemente, identificando il nostro Io e da questa assurda identificazione si genera la paura di perdere il bene acquisito e quindi l’angoscia, che c’impedisce di poter godere del bene stesso. Insomma: tutto ciò che è nostro non ci appartiene; tutto ciò che pretendiamo nostro è solo un assurdo movimento dell’Io, che si appaga, quando s’illude di possedere, mentre – forse – apparteniamo a noi stessi e nulla più. L’intervento di Gerone termina con un chiaro riferimento precristiano: dopo la nostra dipartita renderemo conto al dio della gestione del patrimonio (ricordiamo la storia dei talenti?).

Apollodoro non ha prove che esista un mondo ultraterreno: «chi è mai tornato dall’Ade?». Gerione insiste nell’esistenza del mondo meta fisico e continua il racconto della sua storia, ricominciando dalla dipartita dei genitori. Il completo abbandono e l’identificazione colla natura, col tempo, era cessata, lasciando il posto ad un’angoscia profonda, pensando a quanti amici avessero raggiunti i suoi congiunti nell’Ade. E così:

«Ed ecco, da una casa vicina mi arriva il suono di due flauti e una cetra in accordo; che fu per il mio spirito come quando una barca, sbattuta fra le acque precipiti, trova poi il filo della corrente e vi abbandona».

Gerione sottolinea il potere catartico della musica, che, attraverso il mistero del suono purifica, pulisce, lava, deterge, cancella ogni pensiero, ogni sensazione, parlando un linguaggio apparentemente privo di un alfabeto intellegibile, ma capace di parlare attraverso una melodia, causa prima dell’emozione.

I due musicisti eseguivano la canzone d’Orfeo: la melodia, affidata al primo flauto, era ripetuta dal secondo, mentre la cetra si dedicava all’accompagnamento e nello spazio definito ma irraccontabile del proprio spirito, Gerione ascolta le parole di quel lamento, che gli rivelano un nuovo significato assai doloroso da annullare qualsiasi gesto d’opposizione. Egli s’identifica con Orfeo, mentre Euridice rappresenta il suo passato, «la mia perduta giovinezza, la speranza, l’illusione perduta […], il nome dei giorni cari che non sono più».

Il racconto del mito quale racconto di se stessi, quale evocazione del ricordo, delle nostre azioni passate, una stele di Rosetta per le emozioni. Improvvisamente, Gerione vive nel medesimo istante tutto il male, che ha vissuto durante la sua esistenza.

«[…] Sono come un albero sradicato, che senta le sue radici nel vuoto ed ognuna dolente».

Un albero, che ha perso le radici, completamente staccato dalla terra, non può più svolgere la sua funzione, termina così di vivere; egli si sente distaccato, sospeso a mezz’aria in un cono di vuoto, ed allora:

«Dove sei tu, o cara consolazione? Vorrei da mattina a sera cercarti in tutta la terra e nelle isole remote, se pur sapessi di poterti trovare».

Egli sente il peso quasi insopportabile dell’assenza, del distacco dalla realtà, della non comunicazione; parla in un ambiente dove l’aria è stata tratta e così le sue grida non possono essere ascoltate. La solitudine è anche questo.

«Che farò, che farò senza Euridice?».

Improvvisamente il dolore si sciolse, poiché le parole persero il significato, anche se la melodia continuò il suo incessante dialogo di «cose segrete come s’ella fosse la voce stessa della vita, del dolore necessario e del mistero; ed io piansi, o Fedone».

L’interpellato confessa la propria emozione al racconto, così vero, così autentico da riuscire ad ascoltare la melodia, di cui narrava Gerione, che s’impossessava della sua anima, toccandone le corde misteriose.

Socrate è quindi sollecitato ad intervenire.

Egli chiede ad Apollodoro notizie a proposito dell’Ade, che sarebbe «un sogno di poeti» oppure una schiuma che si avvia, attraverso l’aria e l’acqua, verso la disintegrazione e «nessuno chiederà dove si sia nascosta e così è la vita». Per Socrate, pur ammettendo di non essere punto esperto di fisica, l’uomo non può essere ridotto ad aria, acqua e qualche altro elemento nonostante le insistenze di Apollodoro, al quale chiede la natura del pensiero e degli affetti. In fondo, come nella clessidra lo scorrere del tempo è contrassegnato dal passaggio della terra da uno spazio all’altro, così pensiero ed affetti, sebben più complicati e sottili, subiscono lo stesso movimento della terra. Allora la vita sarebbe una combinazione di corpi, sede del pensiero e degli affetti, che, al contrario della fisicità della carne, si muovono liberamente all’interno di esso.

«Sai – continua Socrate, rivolgendosi sempre ad Apollodoro – come lo scultore tratta il marmo, così il pensiero tratta le idee, e l’affetto i sentimenti […] i quali avrebbero origine dalle sostanze materiali?».

Ottenuto l’assenso da parte di Apollodoro, continua:

«E le arti? […]», le arti nascerebbero dalle idee, che assumiamo attraverso i sensi, ed allora l’uomo è pronto ad assumere da fuori tutto ciò che non è in lui. L’arte, per essere viva, imita la realtà, per rivelarsi vera e somigliante a ciò che si vede.

Tra tutte le arti, della musica cosa potremmo affermare? Secondo Apollodoro, mentre attraverso la vista assumiamo la bellezza della pittura e della scultura, attraverso l’udito godiamo della bellezza delle melodie. Socrate, allora, intende differenziare l’atteggiamento creativo dell’artista dal musicista: mentre il primo imita interamente l’espressione della natura e delle cose, il musicista non può ispirarsi alla natura, per creare le sue melodie.

«Hai udito musica, veramente musica, fuori che dai soli strumenti? […] La scultura e la pittura riproducono il bello, che esiste e si vede, […] mentre la musica, al contrario, crea un bello che di fuori non esiste e di cui le cose non danno indizio».

L’assunto socratico genera perplessità tra tutti i presenti e Simmia prova a protestare:

«[…] lo stormire delle foglie, il fruscio delle onde alle rive, il chioccolio delle fontane, i gemiti del vento, lo stridio dei grilli e mille altri suoni, che sono musica anch’essi […] il canto degli uccelli, come per esempio l’allodola […] e dell’usignolo nelle dolci notti di luna».

Socrate, per nulla scoraggiato, chiede:

«[…] non è forse l’arte un ordinare  e un disporre, un situare la materia secondo una certa regola e per un certo scopo?».

Ricevuto cenno di approvazione, Socrate conferma che l’arte si esprime attraverso la regola e la materia, infatti il musicista nel momento dell’ispirazione coglie la materia da dover regolare, al fine di essere poi essere eseguita; l’ispirazione deve così essere condotta sotto la custodia della ragione, per organizzarsi in una struttura disciplinata da regole ferree; così come la pittura e la scultura sono simili alla musica nell’ispirazione (nella materia). Quindi «lo stormir delle fronde ed il gemere del vento ed altre voci delle natura» sarebbero solo suoni «semplici e solitari», come il canto degli uccelli, e non musica, poiché liberi da qualsiasi condizionamento regolamentare.

Sia la pittura che la scultura avrebbero altresì il vantaggio di poter essere composte da più elementi tratti da diverse fonti ispiratrici, così: «[…] Venere avrà la bella faccia dell’una, il bel seno dell’altra donna e le belle braccia di una terza» ed all’artista il compito di comporre armonicamente la figura, seguendo ovviamente le immagini naturali.

Se il musicista potesse eseguire senza regole, tutti saremmo musicisti; invece l’esecutore dovrà preoccuparsi innanzitutto di accordare proporzionalmente, secondo concetti numerici, le corde della cetra tra loro, perché possa eseguire una melodia giustamente fruibile dal pubblico. Quindi una corretta esecuzione prevede un punto preciso nella corda da toccare, al fine di riprodurre correttamente la melodia, «che prima di cantare sulle corde, ti canta dentro nell’anima».

La musica si rivela quale arte di ordine assoluto, «come nel movimento degli astri» ed è per ciò che per i Pitagorici «musica e astronomia sono chiamate sorelle».

L’artista riproduce tutto ciò che vede al di fuori di sé, il musicista tutto ciò che è dentro di sé, «nel suo stesso spirito»; ecco la differenza. A questo punto la musica non appartiene alla realtà del mondo esteriore e quindi né all’acqua, né all’aria, di cui sarebbe composto l’uomo. Attraverso il ragionamento di Socrate, siamo giunti alla conclusione che l’uomo deve essere fornito di qualcos’altro, che chiamiamo anima, sede della musica.

Cosa esprime la musica? Essa, come le parole che esprimono pensieri, suscita qualcosa in chi l’ascolta ed in ciò potremmo definirla quale linguaggio. Apprendiamo un poco alla volta il linguaggio delle parole dialogando, ma i Persiani, al contrario, non sono in grado di capire l’Odissea, ignorandone la lingua, in cui è stata scritta. La melodia non deve essere appresa e può essere immediatamente capita da tutti, poiché parla un linguaggio universale, in grado – secondo Apollodoro – di suscitare nell’ascoltatore un ricordo. Socrate allora rammenta come l’uomo sia nato «col carico di scontare certe colpe commesse dagli antichi progenitori» (altro concetto pre – cristiano), ecco giustificato il dolore nell’udire una melodia, la quale non può esser composta solo da asettici rapporti numerici, se in grado di suscitare «un’eco di pianto nel cuore».

Apollodoro chiede: quando ascoltiamo musica «siamo noi desti o sognanti?». L’uomo vive in quel mistero, che la musica sembrerebbe togliere, ed improvvisamente l’illusione svanisce, lasciando «un bruciore di desiderio insoddisfatto e un’impressione confusa di aver quasi posseduto la chiave dell’enigma […], salendo tacite scale a un’eccelsa fontana, dove veramente, se avessi potuto bere qualche cosa […] si sarebbe finalmente dissetata ed acquetata».

Già; l’emozione manifesta ed inspiegabile, che genera la musica, la quale «richiama l’anima alle sue sole ragioni […] esortandola a raccogliersi ed a congregarsi in se stessa alla contemplazione di ciò che i sensi non vedono, ma che essa vede».

La musica quindi come spirito degli dei, poiché si rivolgerebbe alla cause prime, risveglierebbe il senso dell’archetipo, destando l’uomo alle origini del λόγος, anche quale meta ultima.

Attraverso il corpo, non possiamo sperimentare la contemplazione della verità, esso si manifesta quale ostacolo da rimuovere, al fine di promuovere la nostra ricerca, affinché l’anima «s’involi verso il puro, verso ciò che sempre è, che è immortale, e che sempre permane». Da ciò discende che, a causa della corporeità, con cui siamo manifesti e di cui siamo realmente limitati, non conseguiremo «il bene, la bellezza e la verità, che insieme chiamiamo felicità».  Se non riusciremo a conseguire la felicità, la nostra vita si rivelerà quale terribile inganno oppure potremmo coltivare la possibilità di essere felici nell’attimo della morte, quando «soltanto l’anima può essere in sé e per sé separata dal corpo».

A questo punto, la musica ci dona l’emozione, che chiamiamo dolore, il quale potremmo definire forse la rimembranza di qualche cosa, «come il raggio riflesso di una gran luce non vista, ma pur vera e reale». E le lacrime, che qualche volta accolgono l’esecuzione non potranno essere fine a se stesse, ma – al contrario – manifesteranno la proiezione dell’«anima tutta protesa verso qualcosa», che ci chiama e che ci accoglierà dopo la morte: l’Ade, in cui finalmente l’anima, libera dal corpo, «si acquieterà e la felicità finalmente sarà in nostro possesso».

protesi sull’abisso, ambe le mani

cave alle orecchie, accolsero la voce

del mistero… (fuggevoli, lontani

accordi, o mormorio d’onda veloce?):

ivi tra sponde a mortal guardo chiuse

sbocca il fiume dell’essere in sua foce.

La musica ha la capacità d’intendere «gl’inenarrabili gemiti delle cose e di comunicarli, di afferrare l’anima dell’ascoltante e trarla a volo per altissimi cieli, soffermandola sul sottoposto abisso ove si consuma il travaglio dell’essere, come su di un fiume che arrivi al mare, e siano in vista, oltre il mare, le rive luminose». In questa dimensione «tutti, parlando musica […] tranquilli e sereni, saremo felici finalmente per la quiete acquistata alla presenza ed al cospetto del dio»-

Testo di autore ignoto a firma Fr. Johannes MXCX

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