La rude modestia di Giuseppe Verdi

Giuseppe Verdi mostrò una modestia rude, che – a volte – apparve quasi altezzosità, perché non poteva vivere tranquillamente, passeggiando per strada senza essere additato e, quando qualcuno tentava di salutarlo, il Maestro si fingeva assorto, proseguendo per la via. Una mattina una signora, elegantissima, chiese:

Scusi, lei è Giuseppe Verdi?

Si.

Volevo soltanto avvertirla che ha il cappello sporco.

Il Maestro allora si tolse il cappello, causando una risata argentina da parte della signora, così il Verdi le chiese.

Signora, che cosa vuol dir questo?

Vuol dire che nessuno al mondo, anche se abbia scritto il Rigoletto, ha l’obbligo di essere scortese col prossimo. Quando si è firmato il Don Carlos, si ha invece quello di togliersi il cappello quando passa una donna!

Il Verdi sopportò la lezione, tanto da offrire il braccio alla signora e così procederono.

Nel 1896, il ministro Gianturco desiderava un autografo del Verdi, per l’albo che stava completando quale dono al Principe di Napoli in occasione delle sue nozze con la Principessa Elena. Il Maestro Gallignani fu incaricato di recarsi a Villa S. Agata, dove sottopose la richiesta del ministro al Maestro, il quale rispose:

«Non ho mai voluto scrivere su tema obbligato, né in omaggio a persone. Due sole eccezioni ho fatto nella mia vita: l’Inno delle Nazioni per la Grande Esposizione di Londra, nel 1862, e la Messa funebre per Alessandro Manzoni. Alla prima m’indusse l’altissima idealità della fratellanza universale ed alla seconda la venerazione dell’uomo, all’artista ed all’amico… che poi era morto! Non ho voluto scrivere per Pio IX nel ’48, né per Garibaldi, né per qualsiasi altro più o meno grande e potente della terra. Non darò nulla adesso».

Il Verdi nutrì profondi sentimenti verso Casa Savoia, tantoché, quando nel 1893 compì 80 anni si dichiarò commosso nel ricevere un telegramma augurale da Re Umberto I, al quale rispose immediatamente con belle e nobili parole. Il rifiuto al ministro Gianturco fu causato dall’innata ribellione, che Verdi sentiva per tutto ciò che avesse soltanto un’apparenza vana, sensazione certificata in una lettera scritta il 2 dicembre 1878, quando fu eletto socio onorario dell’Accademia Properziana.

«Ricevo il diploma col quale mi si nomina a socio onorario dell’Accademia Properziana ed io mi protesto gratissimo della testimonianza di stima che mi viene da quest’antica società. Siccome però nella circolare che mi accompagna il diploma leggo come l’Accademia desideri “di far tesoro di ritratti di soci accademici e di raccogliere qualche saggio di produzione del loro ingegno ecc.”, io mi sento in dovere di dichiarare che, se questa è condizione di appartenere alla Società, io sarei costretto mio malgrado di declinare tale onore. Ringrazio in ogni modo la Società per aver pensato al mio nome e mi dichiaro, colla più profonda stima, dev.mo ecc.».

Al contrario, accettò con entusiasmo la nomina di presidente onorario  di una società operaia di mutuo soccorso, che non chiedeva nulla di vano:

«Accetto con grato animo – egli scriveva il 1 maggio 1865 – l’onore di essere presidente onorario della Società di mutuo soccorso degli operai di Busseto. Queste istituzioni sono santissime quando si mantengono nell’integrità dei loro principi. Ammetto la politica in Parlamento, ma aborro la politica di piazza. Amo la libertà anzi le libertà tutte nella loro più larga estensione, ma detesto ciò che è illegale e fuori di posto. Non dubito punto che questa istituzione saprà mantenersi scevra da ogni idea politica, ed è a questa condizione esplicita che io accetto l’onorevole titolo che mi viene offerto dalla Società bussetana. Con sentimento di profonda stima».

A proposito dell’arte, scriveva nel 1875:

«La melodia e l’armonia non devono essere che mezzi nella mano dell’artista per fare della musica: e se verrà un giorno in cui non si parlerà più né di melodia, né di armonia, né di scuole tedesche, italiane, né di passato, né di avvenire ecc. ecc., allora forse comincerà il regno dell’arte. Un altro guaio dell’epoca si è che tutte le opere dei giovani sono “frutto di paura”. Nessuno scrive con abbandono, e quando i giovani si mettono a scrivere, il pensiero che li predomina si è di non urtare il pubblico e di entrare nelle buone grazie dei critici!»

E nel 1882, il Maestro manifestava allo stesso amico il suo parere sull’evoluzione musicale.

«In fatto di opinioni musicali bisogna essere larghi, e per parte mia sono tollerantissimo. Ammetto i melodisti, gli armonisti, i secca… e quelli che vogliono ad ogni costo seccarsi per “bon ton”; ammetto il passato, il presente ed ammetterei il futuro se lo conoscessi e lo trovassi buono. In una parola, melodia, armonia, declamazione, canto fiorito, effetti d’orchestra, color locale (parola di cui si fa tanto uso, e che il più delle volte non serve che a coprire la mancanza del pensiero) non sono che mezzi. Fate con questi mezzi della buona musica, ed ammetto tutto e tutti i generi. Per esempio, nel “Barbiere” la frase: “Signor giudizio per carità”, questa non è né melodia, né armonia: è la parola declamata, giusta, vera, ed è musica. Amen!»

Della critica non parve punto preoccuparsi, sicuro del suo fiuto teatrale, espresso in un talento di altissima levatura.

«Per un artista che si espone al pubblico – scriveva alla signora Caterina Pigorini Beri -, è una gran fortuna quando la stampa gli è contraria. L’artista resta, così, indipendente. Non ha bisogno di perdere il suo tempo a ringraziare l’uno e l’altro, di piegare al consiglio altrui: scrive liberamente secondo la mente ed il cuor gli dettano: e se in lui vi è stoffa fa… e fa bene».

Così come della critica, il Verdi non riponeva completamente la sua fiducia nel pubblico; infatti, dopo l’insuccesso del Simon Boccanegra, scrisse a Filippo Filippi:

«Non mi hanno mai offeso gli scandali in teatro; e, come scrissi a Ricordi, a 26 anni conobbi cosa significava pubblico! Da quell’epoca in poi, i successi non m’hanno mai fatto montare il sangue alla testa, ed i fiaschi non m’hanno mai scoraggiato. Se ho continuato in questa malaugurata carriera, si è perché a 26 anni era troppo tardi per farne un’altra cosa, e perché non avevo fiducia abbastanza robusto per tornare ai miei campi».

Egli ricusò tutte le onorificenze, evitò sempre qualsiasi omaggio popolare, ma non dimenticò la mancata ammissione al Conservatorio di Milano, quando gli proposero l’ufficio di commissario per una riforma dei Conservatori, rispose al Ministro della Pubblica Istruzione:

«Debbo francamente confermare all’E. V. che io sono poco atto a dar pareri sopra progetti musicali. Io che, studente ancora, a 18 anni, fui respinto da un Conservatorio come inetto ad apprendere la musica».

Dalle ricerche effettuate da Carlo Barassi presso l’Archivio dell’odierno Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, possiamo tracciare gli eventi di quell’increscioso episodio.

Il Verdi presentò la domanda nel 1832 (aveva 18 anni), per essere ammesso alla scuola di composizione; nell’esame di pianoforte il commissario Antonio Angeleri (illustre fondatore di un’eccellente scuola pianistica) rilevò che la «mano dell’aspirante era mal posta e che il correggere questo difetto era cosa difficile, attesa l’età».

Sulle composizioni presentate, il giudizio fu buono, poiché «applicandosi esso allo studio del contrappunto, avrebbe potuto dirigere la fantasia che mostrava di avere e riuscire con plauso».

Il Verdi fu respinto, poiché aveva superato di ben 4 anni l’età richiesta per l’ammissione secondo il protocollo regolamentare, distogliendo così ogni responsabilità alla Commissione giudicatrice.

 Fu forse l’unico episodio, in cui Verdi mostrò totalmente la sua ruvidezza.

Alla Contessa Negroni Prato, che gli chiedeva vanamente la composizione di un poema sinfonico, rispose:

«O ha voluto scherzare o ha voluto dimenticare i miei quasi ottantadue! Una piccola bagattella! Un poema sinfonico?! Poi un’aggiunta di cori, fra i quali nientemeno che la morte di Ermengarda, uno dei più grandi squarci lirici che vanti la poesia! E poi? Alla mia età non si usa intraprendere un lavoro di quella mole senza un eccesso di vanità. E io non sono mai stato vano nemmeno in gioventù. Soltanto orgoglioso. Ora non sono più né l’uno né l’altro. Non ne vale la pena!»

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