Breve commento al «Canto Primo» dell’«Inferno»

Dante Alighieri nel «Convito» stabilisce che il trentacinquesimo anno fosse naturalmente il «mezzo del cammin», in cui l’uomo avrebbe raggiunto la massima potenzialità (ed è per ciò che Gesù scelse di morire intorno al 34° anno di vita), esattamente come il Poeta, deciso ad intraprendere il misterioso viaggio al centro di se stesso, iniziato il 25 marzo e concluso il 31; oppure dall’8 al 15 aprile del 1300, anno giubilare, tra la domenica di Resurrezione e la domenica in Albis.

Perché iniziare dall’Inferno? Probabilmente si sarebbe riferito a quanto scritto nel «Libro di Isaia» (38, 10): «Ego dixi: in dimidio dierum meorum vadam ad portas inferi» (A metà dei miei giorni me ne vado, sono trattenuto alle porte degli inferi); con queste parole il profeta narra dell’intervento salvifico di Dio, che strappa l’uomo alla morte; nel contempo, si pongono i due piani: terrestre e celeste, sui quali si svolgerà il poema.

Sul piano celeste, la «selva» è anche l’oscurità, l’errore di cui ogni uomo è vittima ed il viaggio, che il Poeta sta per intraprendere, lo porterà (e porterà tutti gli uomini) dal dolore alla felicità. Nella letteratura medievale cristiana, la «selva» indicava il male; nello smarrimento della «selva» inizia anche il racconto della storia del «Tesoretto» di Brunetto Latini.

Sul piano terrestre, la «selva oscura» era la città di Firenze, che nel 1300, era preda di forti lacerazioni, causate dalle contese tra Bianchi e Neri. Difficile constò descrivere compiutamente la «selva» (Firenze), perché intricata e complicata da attraversare, senza alcuna traccia di umanità, governata dalla depravazione dei costumi, ed agente nello smarrimento della verità e quindi della giustizia.

Il racconto delle emozioni interiori, vissute nello smarrimento dell’essere, è difficile e terribile è l’aspetto della selva, disumana tanto da non riuscire a trovare una via d’uscita, come fosse in un labirinto; il labirinto di colui che, avendo smarrito la retta via, continua a percorrere le stesse strade, a ripetere gli stessi errori. Al solo ricordo, Dante prova la stessa paura, ma cercherà in sé le forze necessarie, al fine d’illustrare il bene, la salvezza (Virgilio), che avrebbe trovato: una rassicurazione a chi è ancora si smarrisce.

Il Poeta non ricorda come si ritrovò nella selva; probabilmente fu a causa del sonno, di cui era vittima la sua anima, preda del peccato a causa dell’ottenebramento della mente e così la via dritta era stata abbandonata. All’oscurità della selva, si contrappone la luminosità del colle, la via in salita della virtù illuminata da Dio in opposizione alla valle del peccato. Laddove essa volgesse al termine, il Poeta alza gli occhi al cielo, smettendo così di volgere lo sguardo alle cose temporali, per donarsi all’eterno.

Egli desiderava guadagnare la cima, così come avrebbe desiderato, attraverso il suo operato di Priore, la giustizia per la città di Firenze.

Alle spalle del monte, il sole – Dio, che conduce verso la via retta. Questa beata visione acquetò Dante, che aveva sentito paura nella parte concava del cuore, ricettacolo di ogni sentimento durante tutto il tempo (la «notte») dello smarrimento, dell’affanno e del tormento tale da indurre compassione.

Dante si paragona a quella persona, che è riuscito a scampare dai pericoli del mare tempestoso, approdando finalmente alla riva, seppur con il respiro affannoso per lo sforzo compiuto, volge lo sguardo, per vedere il gorgo del male, dov’era piombato. Mentre il corpo aveva avuto sicuro approdo, l’animo era ancora in subbuglio per l’angoscia del pericolo scampato, poiché tutti coloro che ne furono preda finirono per perdere la propria vita. Atteso qualche istante di riposo, riprende il cammino per il sentiero in salita ed una nuova inattesa figura appare sulla scena: un felino, che si muoveva velocemente, col pelo macchiato, simbolo della lussuria, rappresentazione della città di Firenze divisa tra Bianchi e Neri. L’animale funge da ostacolo al conseguimento della Virtù, perché essendo schiavi della lussuria, si costruisce un ostacolo all’indispensabile pentimento, per giungere alla conversione. Dante sembra scoraggiato a tal punto di voler rinunciare al conseguimento della Virtù e quindi sembrerebbe dell’idea di tornare nella selva.

Erano le 6 circa del mattino e si riproponeva simbolicamente la creazione dell’universo (thema mundi), la volontà del Poeta quindi di rinascere a nuova vita, che sarebbe avvenuta sotto il segno dell’Ariete, secondo Macrobio, «In somnium Scipionis» e Virgilio, nelle «Georgiche»  

«Giorni diversi non credo

che brillassero un tempo alle origini del mondo

o di diverso corso: era primavera:

su tutta la terra passava primavera,

ed Euro trattenne i turbini d’inverno

quando i primi animali bevvero la luce

e la razza degli uomini nei campi aspri alzò il capo

e spinte furono le fiere nelle selve, le stelle nel cielo»

Eppure la visione di quei raggi, che simboleggiano anche la morte e resurrezione del Redentore, infondono nel Poeta la forza necessaria, per superare ogni ostacolo e, pensando alla città di Firenze, nutre speranze pensando alla «gaetta – amabile – pelle», screziata, variopinta pelle, rappresentazione anche del bene. La presta sicurezza nel procedere è improvvisamente interrotta dalla paura a causa della vista di un leone, che sembrava si facesse incontro superbamente («con la test’alta»), mostrando una fame vorace, propria del nocumento, che arreca l’azione del superbo. Anche l’aria sembrava fosse pregna di terrore per il timore di quell’atto. Collo stesso peccato capitale, s’immagini alla potenza guelfa della casa reale di Francia, così come i Neri fiorentini, avversati del priorato di Dante, avari di onori e di denaro.

Il terzo, ed ancor più grave peccato, era rappresentato da una lupa magrissima, carica di tutte le bramosie umane, che molti danni procurava alle persone, costrette a vivere di stenti. La lupa condusse Dante a tal peso da essere impedito la prosecuzione della scalata; essendo il suo corpo gravato da un peccato così grave e quindi pesante. La lupa – avarizia rappresenta il potere temporale dei papi, ancorato alla smania del denaro e quindi all’avarizia (le cose non sembrano cambiate a distanza di settecento anni), peccato principale della casta sacerdotale.

Le tre passioni raccolte (la lussuria, la superbia e l’avarizia) avrebbero rappresentato un serio ostacolo ad ogni possibile riforma; nello stesso tempo rappresentano la faccia oscura dell’amore, dell’umiltà e della generosità, con cui si dovrebbe condurre la vita e pensare al bene comune.

Così come l’avaro si addolora profondamente, quando vive il momento, in cui perde ogni sostanza posseduta, così la lupa irrequieta costringe Dante ad indietreggiare, perché ritorni nella selva oscura, perdendo il terreno conquistato ed all’improvviso qualcuno, che per lunghi anni aveva taciuto, così come la voce della sua ragione, che a lungo aveva taciuto, essendo egli immerso nel peccato.

Dante coglie la figura in uno spazio, che sembrava allargarsi infinitamente e chiede soccorso a quell’ombra, la quale dichiara di aver vissuto nel passato. Virgilio rappresenta la luce della ragione umana, che guida gli uomini al bene. Nacque a Mantova, al tempo, in cui visse, Giulio Cesare aveva 31 anni ed ancora avrebbe dovuto iniziare la sua vita pubblica. Si trasferì a Roma sotto Augusto, in cui regnava una religione falsa, composta da dei bugiardi. Fu poeta e pose in versi l’«Eneide», in cui cantò le gesta del giusto Enea, figlio di Anchise, fuggito da Troia, la cui discendenza avrebbe fondato Roma.

Virgilio immediatamente affronta il problema, che sta attraversando Dante, chiedendogli perché stia retrocedendo vero la selva oscura, così carica di angoscia per il viandante.  Chiede invece a Dante di spingersi verso la via della felicità, principio di ogni gioia. Il Poeta non risponde immediatamente alla domanda postagli, perché preso dalla presenza di Virgilio, i cui lavori tanto avevano formato il suo stile. Mentre parla è preda dello stupore, sente rispetto e prova vergogna di trovarsi davanti al Maestro in una condizione assai penosa. Afferma che il lungo studio ed il grande amore lo hanno indotto a studiare con attenzione i testi del Mantovano, il più grande – per Dante – fra tutti i poeti, antichi, cui getta un simbolico ponte, meritandosi sincero continuatore. Dante imitò Virgilio nello stile dell’«Eneide», tragico e solenne nelle sue grandi canzoni morali e dottrinali, per mezzo delle quali aveva assunto fama.

Il Poeta chiede aiuto alla virtù della sapienza, rappresentata da Virgilio nell’affrontare la famelicità della lupa. Il Poeta indica la causa del suo indietreggiare: la lupa, la quale, col suo aspetto minaccioso e famelico, provocava un gran sentimento di paura. La lupa è simbolicamente la Chiesa di Roma, che Dante teme, poiché, seppur Guelfo convinto, rivendicava la completa autonomia fiorentina da qualsiasi ingerenza esterna. Quando fu eletto papa Bonifacio VIII Caetani, il Poeta si oppose alla sua politica espansionistica, pur non evitando la spaccatura tra i Guelfi, in Neri (legati al Papa) e Bianchi (contrari alla politica temporale). Il Consiglio dei Cento decise la messa al bando degli esponenti più violenti delle due fazioni belligeranti; il papa brigò, perché Dante ottenesse l’ambasciata di Roma, al fine di trattenerlo con l’inganno. I disordini fiorentini causarono la decisa azione di Carlo di Valois, che rovesciò il governo bianco, nominando il podestà, Cante Gabrielli, alleato coi Neri. Nel 1302, Dante fu condannato «per baratteria, frode, falsità, dolo, malizia, inique pratiche estorsive, proventi illeciti, pederastia, e lo si condanna a 5.000 fiorini di multa, interdizione perpetua dai pubblici uffici, esilio perpetuo (in contumacia) e se lo si prende, al rogo, così che muoia». Ecco spiegato il timore del Poeta per la lupa «romana».

Il Mantovano gli consiglia di percorrere un cammino diverso, poiché la via breve è impedita dalla presenza dell’animale. Al fine di conoscere la felicità, all’uomo è destinata la via del peccato (l’inferno), attraverso cui purificarsi. La lupa, di natura selvaggia e cattiva, gl’impedirà di procedere e nulla potrà Dante e alcun altro uomo, se non – rimanendo sulla via del peccato – perdere la sua vita. Infatti la cupidigia non raggiunge mai soddisfazione; più si è schiavi di quel peccato e più aumentano le occasioni per ripeterlo. In politica, la Chiesa si allea con qualsiasi potentato, al fine di esaurire la sua spietata politica temporale e ciò accadrà fino a quando il «veltro» (forse Can Grande della Scala, capo ghibellino) non toglierà il potere allo Stato vaticano, imponendogli una morte dolorosa. Finalmente il nuovo Principe, nato da umile origine, non dimostrerà avidità di dominio e di ricchezze, ma si nutrirà di sapienza (il Figlio), amore (lo Spirito) e virtù (il Padre), le tre persone della Trinità.

Rinascerà quell’umile Italia, per cui si sacrificarono gli eroi virgiliani Cammilla, Eurialo, Turno e Niso, morti nel conflitto tra Troiani e Latini per la supremazia nel Lazio; Camilla,  figlia del re dei Volsci, e Turno, re dei Rutuli, rivali contro Enea; e due giovani amici troiani, Eurialo e Niso. Il veltro rintanerà la lupa all’inferno, da dove provenne per volontà del diavolo, perché tentasse l’uomo.

Dopo la profezia, Virgilio si propone a Dante quale guida, traendolo con sé in salvo attraverso un’altra strada: quella spirituale, dall’Inferno, conducendolo tra i dannati, che invocano una seconda morte, al fine di porre termine allo strazio eterno.

Quindi il viaggio continuerà tra le anime, che penano nel fuoco della purificazione del Purgatorio, al fine di essere accolti in Paradiso, luogo dove sarà condotto da un’anima più degna: Beatrice, poiché Virgilio, essendo vissuto prima di Cristo, credette in una religione caratterizzata da dei falsi e bugiardi. Beatrice lo condurrà nel regno di Dio, nella sua sede, il quale impera ovunque; di quel Celeste dominio, Dante avrà la sorte di entrare.

Il Poeta chiede, in nome di quel Dio che il Virgilio non conobbe, di sfuggire alla dannazione eterna, perché potesse finalmente vedere la porta del Purgatorio

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