La donna nella vita di Giacomo Leopardi: Paolina Ranieri

Antonio Ranieri (1806 – 1888)

Francesco Ranieri e Luisa Conzo furono i genitori di Paolina, che nacque il 26 marzo 1817 a Napoli, quinta di dieci figliuoli; il più grande dei quali, Antonio, fu amico intimo del Leopardi. La famiglia versava in condizioni agiate, grazie anche alla rendita della dote di Luisa ed alcuni possedimenti. Paolina fu ben presto colta da un ascesso al fianco, così dovette subire un’operazione dolorosa, che, seppur riuscita, non avrebbe ridonato alla ragazza lo stato di perfetta salute.

Antonio, di carattere ardimentoso, non sopportava il giogo di Francesco I, tanto da stringersi in amicizia con molti liberali, tra cui Carlo Troya. I genitori, per evitargli grane, lo inviarono a Roma (forse nel 1826), perché compisse i suoi studi, lontano da amicizie pericolose. Da Roma, Antonio si recò a Firenze, dove conobbe il Leopardi e dove, appresa l’improvvisa indisposizione della mamma, decise di rimpatriare, ma gli fu negato il passaporto e comunicato l’esilio. In poco tempo, Luisa cessò di soffrire, e l’immagine della donna sofferente si stampò nell’animo di Paolina.

Antonio rimpatriò nei primi giorni dell’ottobre 1832, rimanendo a Napoli fino all’aprile del 1833. L’amicizia col Leopardi risaliva al comune trascorso fiorentino; si era poi irrobustita coi lunghi soggiorni romani fra il 1831 ed il 1832, dove il Ranieri amoreggiava con l’attrice Maddalena Pelzet Signorini. Paolina immediatamente si accorse dello stato d’animo del fratello, piuttosto angosciato per aver lasciato a Firenze Giacomo, malato e solitario. Gli suggerì di recarsi dall’amico, per condurlo con sé a Napoli, promettendo che si sarebbe presa cura del grande Recanatese, giunto nel capoluogo partenopeo il 1 ottobre del 1833. L’anziano padre rifiutò di ospitare il Poeta in casa, stimandolo irreligioso, che si allogò presso un appartamento vicino a Via Toledo, per poi passare definitivamente in Via Maria d’ogni bene.

Giacomo Leopardi (1798 – 1837)

Il Leopardi risultò immediatamente simpatico alla diciassettenne Paolina, che procurò di arredare con gusto la casa, che avrebbe accolto il sommo Ingegno; e quando Giacomo si trasferì definitivamente nel quartierino di Vico Pero 3, presso Capodimonte, Antonio trasse con sé Paolina e, per poco tempo, l’altra sorella, Teresa. Giacomo iniziò, un poco alla volta, a trattare Paolina come una sorella, per le cure amorevoli che riceveva; ella sentiva profonda pietà per l’anima grandissima e sventurata del Poeta, ricavandone il ruolo di serena confortatrice, di fedele ascoltatrice degli eletti racconti del grande Recanatese.

Giacomo provò amore per la giovane? Alcuni critici la stimano protagonista del «Consalvo» e del «Pensiero dominante»; altri respingono questa interpretazione. Scrisse il critico Odoardo Valio:

«Nessuno di siffatti amori riescì ad appagarlo appieno, nessuno a trasfondergli un verace conforto, nessuno a conciliarlo un po’ con la vita. Invece tutto ciò raggiunse la Ranieri, il fascino della quale addirittura lo soggiogava, perché era un incontro di vergine amore e di vergine pietà insieme, di amore in lui per lei, e di pietà in lei per lui; ond’ella, a differenza di tutte le altre, ebbe il merito supremo di far risplendere, ancora una volta, un raggio di speranza in quello spirito desolato. E la bella figura muliebre nel carme mirabile del «Consalvo» è appunto quella di Paolina Ranieri».

Il Leopardi sentì un affetto altissimo, poiché Paolina stava sacrificando anni importanti della sua vita, al fine di curare un malato estraneo al consorzio familiare, anche se si mostrava «mite, modestissimo ne’ suoi desideri, di nessuna pretesa, affabilissimo poi quasi sempre, arguto nel conversare», come scriveva Giuseppe Ranieri. Le lunghe nottate a studiare oppure a ragionare coi suoi amici confortavano il Poeta, anche se dispiaciuto per il terribile carico dei dolori. Del Ranieri, scrisse:

«Un mio amico, anzi compagno della mia vita, Antonio Ranieri, giovane che, se vive e se gli uomini non vengono a capo di rendere inutili i doni ch’egli ha dalla natura, presto sarà significato abbastanza dal solo suo nome».

Nulla scrisse a proposito di Paolina, a cui, forse, dedicò l’ultimo, dolcissimo Canto, in cui si sentiva battere un cuore giovanile, pieno di ardore.

Presso i Ranieri, il Poeta visse modestamente, sempre assorto nell’intima vita del suo grande spirito, gentile verso tutti coloro che gli manifestavano simpatia ed ammirazione.

Cesare Dalbono narrò in una lettera «che una sera eravamo in casa Ferrigni dove avevano condotto il conte Leopardi. Il Leopardi a un divano e Carlo Troya vicino a lui su di una sedia. Parlavano di geografia antica. Sapete che Troya era chiamato dagli amici Carlones perché ci era Carlino, che era Carlo Mele. Io ero molto giovane e ordinai una di quelle che si chiamano quadriglie e feci ballare le ragazze che c’erano, e principalmente le figliuole del Ferrigni. Io facevo da direttore che non ho mai ballato! Mi ricordo che la più grandicella della Ferrigni era Argia, che poi diventò valente nel dipingere ad olio; e allora era piccolissima. Ci era Paolina (Ranieri) giovinetta, una simpatia di prima forza, e quella cara Donn’Enrichetta, già moglie del Ferrigni.

Ricordo ancora che fui grandemente applaudito perché il conte Leopardi si era divertito molto a vedere il ballo di queste fanciulle e a udire le grida del direttore, vostro servo, che si affannava a farle andar bene… Quella sera in casa Ferrigni ci era il meglio di quel tempo».

Negli ultimi anni napoletani, Giacomo scrisse «Sopra un bassorilievo antico e sepolcrale», dove ritrae una giovane morta, che saluta i parenti, con tutta l’affettuosità e la commozione, che sa esprimere il Recanatese, descrivendo l’addio ad una persona cara, con cui avrebbe trascorso tanto tempo insieme; forse pensava a se stesso ed ai Ranieri, con cui avrebbe desiderato trascorrere molti anni, ed invece…

«Il tramonto della luna» fu composta nella villetta fra Torre del Greco e Torre Annunziata, tra la primavera e l’autunno del 1836, rimpianto disperato della giovinezza; come «La ginestra», scritta nello stesso anno, tragicamente terribile; e nel fiore solitario, che emana un profumo dolcissimo, forse ne raccontò della pietà di Paolina, anche lei, come quel fiore, pietosa delle sventure, che stavano colpendo Giacomo. Fu, probabilmente, l’ispiratrice dei versi più elevati, che abbia scritto. Forse Paolina non era lontana, quando tra le amare derisioni dei «Paralipomeni», ritrovava la speranza dell’antico entusiasmo, per cantare la virtù. Gli ultimi mesi, furono trascorsi tra presagi gravi e caduche illusioni, con cui cercare di non turbare troppo i suoi generosi ospiti. Quando scoppiò il colera, il Leopardi si sentì male, ma rinunciò ad avvisare un medico, nonostante le insistenze di Antonio, che risoluto si pose subito alla ricerca del professionista. Il Poeta rimase con Paolina, che l’assistette; quando Antonio rincasò col dottore, Giacomo era sulla sponda del letto, appoggiato a più guanciali. Il clinico constatò che nulla sarebbe stato possibile ed allora consigliò la visita di un prete. Il critico Prospero Viani asserì che le ultime parole, testimone Paolina, furono rivolte ad Antonio: «Ci vedo più poco… apri quella finestra, fammi vedere la luce», dopo le quali spirò senza sofferenze.

Dopo la scomparsa di Giacomo, Antonio e Paolina tornarono nella casa paterna; nel 1851, i due fratelli si trasferirono ancora in Palazzo Mantone, nel Rione di Santa Teresa. Fu la giovane Ranieri ad ideare un monumento, custodito ora nella chiesa di S. Vitale, vicino a Virgilio ed a Jacopo Sannazzaro; così come ebbe tanta parte nel preparare ed ordinare l’edizione dei due volumi di Giacomo, editi da Le Monnier di Firenze.

Quando Ranieri fu tratto in arresto dalla polizia napoletana per attività politica sovversiva; Paolina brigò ed ottenne che fosse tolto dalle secrete e condotto nella  miglior sala della questura, dove poté essere in compagnia del fratello fino alla scarcerazione, che sarebbe avvenuta l’indomani mattina.

Ranieri si astenne dal partecipare ai moti politici del ’48, perché, appartenendo ai Ghibellini, non condivideva un rivolgimento operato in nome del Papa. La sua casa divenne centro del movimento liberale, cui partecipò con entusiasmo anche Paolina, che conobbe Carlo Pepoli, Giuseppe Giusti, Giovan Battista Niccolini.

Quando nel 1860, i liberali caddero per mano borbonica, ella apprestò cure ai moribondi. Il 1 ottobre, una deputazione di napoletani si recò da Vittorio Emanuele, per indurlo ad entrare in Napoli; in quel consesso c’era anche Paolina.

Terminata la stagione delle rivolte italiane, la vita si rasserenò ed Antonio, intrapresa la via dell’avvocatura con successo, poté donare attimi sereni alla sorella, che soffriva la privazione di una sua famiglia.

Quando il Ranieri si accorse del terribile male, che stava uccidendo la sorella, tentò del tutto per salvarla, ma la fine arrivò il 2 ottobre 1878: «Tutto mi rammenta, tutto mi commuove, tutto è per me lacrime, singhiozzi, convulsioni inenarrabili, incomprensibili. Io spero che Iddio mi salverà presto da un tale inaudito martirio», scrisse. «Non seppi, fra gli spasimi e gli strazi che mi distruggono, trovare altro conforto, che deporre queste lacrime e queste rozze e tumultuarie parole, nel vostro seno fraterno. Troppe altre me ne resterebbe a dire: ma non ne avrò il tempo. Sopravvivere mi è impossibile; ed ho una viva speranza, anzi un profondo presentimento, che Iddio richiamandomi in breve ora a sé e ricongiungendomi all’ angelo suo e mio, s’inclinerà a liberarmi da un dolore sterminatamente più grande di quel tanto che la natura mortale può sopportare».

Trovò degna sepoltura nella chiesa di Santa Chiara, raffigurata in marmo con un’espressione di sofferenza, il volte, gentile, appoggiato ad un mano, gli occhi socchiusi ed un libro, che tiene colla sinistra.

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