Alla prima de «Il ferro» di Gabriele D’Annunzio presso il Teatro Carignano di Torino

«Il Ferro è tra le cose migliori del Teatro dannunziano», esordì Domenico Lanza sulle pagine de La Stampa di Torino il 28 gennaio del 1914, nel recensire la prima. Descrisse come «l’arte del poeta e dello scrittore vi si rivela con una semplicità più profonda e più eloquente», rinunciando così «al fasto abbondante o clamoroso delle forme esteriori, né gli eccessi delle immagini, né il senso della leziosità e degli artifici così cari altre volte al D’Annunzio». Il dramma si rivelerebbe al di là del fenomenico, attraverso la sensazione poetica, avrebbe poi raccolto la figura e l’anima dei personaggi, «anche ciò che vibra più occulto, più inafferrabile nell’umanità», ritraendo la verità nei «sentimenti e nelle espressioni più delicate e sottili».

«Il Ferro» sarebbe agitato da un’anima di poesia, «un’ansia di tragico dolore lo riempie, un suono tenuto costantemente su di un tono di alta tensione è nella sua voce». L’origine del dramma consterebbe nel groviglio di passioni, che già in passato fornirono del materiale al Poeta per i suoi lavori: una figlia, appreso l’orribile segreto di suo padre, ucciso da un uomo, che è poi diventato marito della vedova, medita la vendetta. Il D’Annunzio avrebbe saputo ricreare «lo spirito di Egisto o di Elettra vendicatori del padre Agamennone contro Clitennestra – che nella tragedia sofoclea è uccisa per mano del figlio, Egisto – non è che nel pensiero o nell’intenzione della protagonista, Mortella: nel Ferro è la madre stessa di Mortella che trafigge, con lo stile tratto dalla figlia, Gherardo Ismera, che ha dato morte al suo primo marito». La madre ignora il delitto, di cui s’è reso colpevole il neo marito; quando è informata dalla figlia, schiava di tanto dolore, è ella stessa ad armarsi la mano, per scagliarsi contro l’uomo, assolvendo così Mortella da ogni responsabilità.

La figura di Mortella, di Gherardo Ismera (l’assassino), della madre agiscono come staccati dal mondo reale, poiché rivelerebbero l’anima e non il corpo, concentrati esclusivamente sull’«intensa e lirica dimensione del sentimento stesso».

Mortella, sin dalla prima scena, dipana, un poco alla volta, il suo stato interiore:

«In questi tre anni – (dal giorno della morte del padre) – mi son tanto mutata che mi par quasi di portar un altro sangue».

Vive nella villa, dove si svolse il delitto, dove incontra la madre inerme, verso cui nutre una tragica ombra di dolore, ed il padrigno assassino, per cui si sente accesa di odio.

Una sua amica, la Rondinella, commenta:

«Pare che essa entri nell’anima di chiunque; quando mi fissa, mi trema il cuor dentro e mi vien quasi fatto di coprirlo come quando si para il lume con una mano, affinché essa non lo vegga ardere di allegrezza».

Il Gabriele seguirebbe l’espressione del personaggio attraverso «un talento nervoso, febbrile, ma sicuro nel tempo stesso».

Nel Secondo atto, quando parla col fratello Bandino, Martella matura l’idea di vendicarsi.

«Che cosa?» le domanda il fratello

«Qualcosa si deve fare».

«Che cosa?»

«Tal cosa che bisogni o farla o patirla».

La protagonista «assume una forza poderosa di volontà tragica, che innalza, oltre la vita comune, quel tono di poesia che traduce una realtà superiore di anime».

Costanza Ismera appare «con non minor risalto sullo sfondo di questo cupo bassorilievo. Ella ci induce non solo ad un’impressione di forza, ma di pietà. Ci colpisce o ci commuove. La sua maternità dolorosa tra la tenerezza del figlio Bandino, e il fervore febbrile di ribellione, di odio, di angoscia di Mortella, ha nel dramma molteplici voci di poesia e di sentimento».

La scena migliore del dramma – a giudizio del Lanza – sarebbe la prima scena del Terzo atto, che vedrebbe coinvolte Costanza e Mortella, in cui la mamma si dorrebbe dei suoi sospetti, della sua avversione:

«Quello che tu pensi contro di me è peggio del tradimento, peggio dell’assassinio».

Mortella risponde, con accenti di tragica evidenza:

«Ma il più leggero de’ tuoi passi intorno al suo letto lo faceva soffrire peggio che tu avessi camminato sul suo petto con piedi di bronzo. Anche prima che la malattia lo inchiodasse sul letto, certe sere, quando era solo con me, all’improvviso, mi stringeva fra le braccia con una disperazione che faceva per me la notte su tutta la terra e oscurava tutto l’avvenire. Non parlava, ma stringeva più forte e sentivo cadere le lagrime sul mio capo. Sono qui quelle lagrime, sono qui dentro: tutte indurite, divenute diamanti che tagliano».

Le due figure femminili offrono maggior luce al dramma; la «ricchezza interiore, la loro bella linea esterna sono le virtù più felici del dramma. Un’altra piccola figura il D’Annunzio ha posto in sul limitare d’ogni atto della sua tragedia come un’ouverture di giovinezza, di sorriso e di grazia poetica ad un concerto di aspre note drammatiche, ed è quella della Rondine, “dal piccolo cuore gonfio di primavera”».

I rimanenti personaggi non mostrerebbero pari energia di espressione e di vita: Bandino, fratello di Mortella, «sperduto in una vaghezza di sogno»; Giana Guinigi, la moglie di Bandino «è un fantasma pallido, piuttosto che scolpita figura d’azione o chiaro simbolo di passione e di anima». La tresca tra Giana e Gherardo Ismera, «adombrata in rapide allusioni, non è un particolare che giovi alla bellezza ed alla semplicità del dramma, né giova ad illuminare di chiara luce il mistero dell’anima e dell’energia passionale dell’Ismera. L’azione di costui nella tragedia non appare né profonda, né completa, né persuasiva. Egli si è arreso un giorno  così confessa in una scena di superbo stile nel Terzo atto, alla preghiera dell’amico che volle gli accelerasse l’agonia della sua vita. Quest’episodio del dramma lontano e del lontano delitto non da alla figura dell’Ismera né la profonda chiara vita della sua anima di volontà, di passione, di forza, né di calore e l’energia del suo atto. Il suo antagonismo a Mortella è freddo: talora anche enfatico. Qualcosa che non è l’impeto sincero, che non è la nitida visione del suo conflitto in rapporto con i sentimenti degli altri personaggi sembra paralizzare la sua espressione. Il suo dramma è ancora disgiunto dal dramma in cui il Poeta l’ha posto: la sua partecipazione è magnifica, si, per evidenza verbale, non per luce interna di anima».

Nella prima rappresentazione, si rivelò l’attento ascolto della platea convenuta, che applaudì convintamente, sin dal primo atto, in cui si rivelò immediata «l’energia spirituale di quelle due figure di donna che in esse campeggiano». Il pubblico ne «sentì la virtù tragica, anche quando la mancanza di tutto ciò che è l’armamentario del teatro comune riduce tutta l’essenza del dramma alla verbale espressione dei personaggi».

Ancor più successo riscosse il secondo, ravvivato dalla bella scena finale tra Mortella e Gherardo»; «l’impressione si mantenne viva e profonda – nel terzo atto – anche se il lungo monologo di Gherardo, che confessa l’uccisione dell’amico, ha, tra le sue belle virtù di eloquenza, anche qualche segno di prolissità e di enfasi».

Il Cronista rivelò la difficoltà nell’interpretazione, poiché «Il Ferro non può essere recitato come un dramma borghese moderno; la sua figura non può, senza che si alteri il valore dell’emozione che può produrre, essere resa da un’interpretazione che ne attenui il tono».

Virginia Reiter (1862 – 1937)

«Nera Carini ha dato a Mortella tutta la sua anima di attrice intelligente, non la maschera tragica, non la nota di profonda elevazione, la ricchezza di sensazioni che il personaggio contiene. Né il talento così vario e duttile di Virginia Reiter ha offerto a Costanza Ismera quella misurata espressione di atteggiamenti, quel tono di tragico, severo dolore che conveniva. Il Carini sostenne con bell’impeto la parte di Gherardo. Tutti questi interpreti hanno insomma spiegato la loro eccellenza di attori, ma non hanno dato al dramma di attori, ma non hanno dato al dramma quel colore e quasi tono, dai quali solo esso può venirci dinanzi in quella appropriata e profonda visione che ne penetri e renda la natura».

Domenico Lanza concluse la sua recensione, registrando quindici chiamate al proscenio.

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