Quando il 24 febbraio 1463 nacque Pico della Mirandola, il nipote Giovanni Francesco, nella biografia dedicata allo zio, scrisse che sopra il letto apparì una corona circolare di fuoco, che svanì rapidamente, per annunciare la bellezza dell’intelletto del nascituro.
Non abbiamo certezza che tutto ciò corrisponda a verità; notiamo come il sapere sia indicato attraverso il «fuoco» della conoscenza, di prometeica memoria, che appare nella forma geometrica più perfetta: la circonferenza, simbolo anche dell’uroboro, quindi dell’infinito, poiché infinito è il campo del conoscere.
Pico apparì ai suoi contemporanei una delle figure maggiormente carismatiche, grazie alle mirabili intuizioni intellettuali, con cui descrisse le sue opere. Si rivelò quale poeta latino e volgare, filosofo dalla pronta e sicura dottrina, innovatore, tantoché Lorenzo De Medici giustamente lo definì «istrumento di sapere fare il bene e il male». La sua breve esistenza si dipana dalla giovinezza agiata, perché appartenente ad un nobile casato, attraverso lo scandalo della condanna papale, e si conclude nella Firenze savonaroliana.
Studiò nelle più prestigiose università del suo tempo; quindi ebbe consolidati rapporti col platonismo di Marsilio Ficino, fino alla controversa connessione col maestro di ebraico, Flavio Mitridate.
Nel 1477, si trasferì, su impulso decisivo della madre, a Bologna, per studiare diritto canonico ed intraprendere poi la carriera ecclesiastica. Alla scomparsa della genitrice, nel 1479, si recò a Ferrara, per approfondire la conoscenza delle lingue classiche e della retorica. Due anni più tardi, si trasferì a Padova, dove esaminò attentamente i commentatori tardo – antichi arabi ed ebraici attraverso anche l’intermediazione del filosofo ebreo Elia del Medigo.
Nel 1485, si confrontò nelle Disputationes parigine, forma di dibattito filosofico d’impostazione scolastica. L’esperienza francese si rivelò assai importante, poiché due anni più tardi, Pico presentò novecento tesi (Conclusiones philosophicae, cabalisticae et theologicae, 1486) al congresso d’intellettuali, che si sarebbe dovuto tenere il 6 gennaio a Roma, dove si erano dati appuntamento i più insigni studiosi. In esse, concentrò il sapere fisico, metafisico e teologico, accanto alla tradizione pitagorica, ermetica e magica, al fine di realizzare un’ideale scala, che elevasse l’uomo verso il divino. Egli aggregò le diverse posizioni, apparentemente opposte, e concluse che il cristianesimo rappresentasse la forma più alta di rivelazione. Purtroppo, il dibattito non avvenne causa l’opposizione delle autorità ecclesiastiche, irritate soprattutto dalla prepotenza intellettuale di Pico e molto preoccupate dagli effetti di sì esplosiva e sapienziale condizione, che avrebbe potuto togliere l’esclusivo dominio alle gerarchie teologhe della chiesa sull’esegesi biblica.
Le Conclusiones furono attentamente esaminate da una commissione, appositamente costituita per volontà di Innocenzo VIII. Alla fine dell’istruttoria, sette furono le tesi ritenute eretiche, altre sei vicine all’eresia perché vicine agli errori dei filosofi pagani. Pico cercò inutilmente di difendere le sue proposizioni in un’appassionata Apologia, ma ciò si rivelò incapace a fermare l’anatema papale ed il conseguente mandato di cattura, che lo costrinse a riparare a Lione, dove nel gennaio del 1488, fu comunque arrestato e rinchiuso nella fortezza di Vincennes. Grazie all’intercessione di appoggi influenti, dopo poche settimane, ricevette la sospensione dell’anatema e riassaporò la libertà. Decise di trasferirsi a Firenze, su garanzia di Lorenzo de Medici, quando nel giugno 1493, Alessandro VI annullò la sentenza del suo predecessore.
Nel 1489, commentò i primi versetti del Genesi (Heptaplus) secondo le tecniche qabbalistiche, per cui nell’«In principio», ( בראשית, bereshit) intuì il collegamento tra Macrocosmo e Microcosmo.
Nel 1492, aveva composto il De ente et uno, in cui tentava di dimostrare il sostanziale accordo tra Platone ed Aristotele sull’Uno.
Nel corso degli anni, riunì una preziosa biblioteca, composta da libri assai rari, al fine di soddisfare il suo bisogno naturale di conoscenza, strumento di pace ed appagamento per lo spirito.
Mentre l’Italia era preda degli stati stranieri, Pico si domandò se fosse possibile individuare una misura comune tra gli uomini attraverso la renovatio e la concordia mundi, mezzi ideali per realizzare una sintesi delle diverse forme del sapere, che avrebbero dovuto considerare ogni conoscenza acquisita. In ciò, non trattò, al pari del Ficino, Platone quale maestro massimo, poiché riteneva castrante il rinchiudersi all’interno di un’Accademia. La frammentazione della Verità era per Pico evidente, poiché l’uomo aveva avuto il diritto di esserne parte; ed ognuno aveva raccontato parte di essa; ed è perciò che si riteneva necessario conoscere il completo pensiero umano, al fine anche di disvelare i segreti collegamenti tra le diverse posizioni, causati dalla comune appartenenza ad un’unitarietà originale.
Pico richiamò spesso l’importanza dell’antichissima sapienza ebraica, il cui strumento qabbalistico si rendeva ai suoi occhi rivelatore della corretta interpretazione dell’interpretazione spirituale ed iniziatica della Legge, quale origine della creazione del mondo.
Morì il 17 novembre del 1494, e volle essere sepolto col saio dei domenicani.
Una settimana dopo, Girolamo Savonarola, al termine del sermone, ricordò l’intellettuale scomparso, e così commentò:
«Ciascuno di voi credo che conoscesse el conte della Mirandola, che stava qui in Firenze. Dicovi che l’anima sua è nel Purgatorio, perché fu tardo a non venire alla religione in vita sua, come era sperato. Orate pro eo».
Nel 1496, uscirono postume, per iniziativa del nipote, Giovanni Francesco, le Disputationes adversus astrologiam divinatricem, in cui descrisse la genesi dell’astrologia sullo sfondo della storia dell’umanità. Distinse chiaramente l’astrologia matematica (o astronomia), che intuisce il profilo del cielo e la conseguente influenza sugli uomini e sulle cose, da quella giudiziaria, che leggerebbe nel futuro, dichiarandola ignorante delle disposizioni celeste.