Il cinema di Federico Fellini. Una lettura pastorale tra presente e futuro

L’interessante saggio sul cinema di Federico Fellini è diviso in tre parti: «Lo sguardo felliniano: radici, memoria e profezia» a cura di Vincenzo Corrado, «Federico Fellini e la chiesa cattolica, tra incomprensioni e sguardi di senso» di Massimo Giraldi e Sergio Perugini ed infine «Archivio storico. Giudizi morali e valutazioni nelle “segnalazioni cinematografiche” sui film di Federico Fellini» a cura di Eliana Ariola.

Le alte gerarchie benedissero l’avvento del mezzo cinematografico quale strumento propedeutico alla diffusione degli alti sentimenti cattolici sin da Papa Leone XIII. Pio XI si preoccupò invece d’istituire presso le sedi vescovili un «ufficio permanente di revisione», che svolgesse pratica di «buona e sana censura», etichettando i film visionabili o condannabili secondo la morale dell’epoca. L’Azione Cattolica, con la pubblicazione «Segnalazioni cinematografiche» si appropriò delle direttive papali, fornendo ai fedeli il suo inappellabile giudizio.

Ci domandiamo: ogni film fu certamente visionato da sacerdoti e da laici vicinissimi al cattolicesimo; orbene, furono scandalizzati dal racconto di certi film, a cui non concessero la patente di visibilità? E come si liberarono di quelle influenze devianti?

Presenti, come sempre accade nei fatti importanti della vita, l’armata gesuitica, quale ente controllante con «La civiltà cattolica».

Pio XII («Discorsi sui film ideali», 1955) richiamò l’attenzione a vigilare sul racconto dei fatti, ché sarebbe dovuto avvenire sempre nell’ambito di una non chiara «capacità lesiva nei confronti dell’integrità della persona».

L’impianto critico – inquisitorio fu ulteriormente perfezionato nel dicembre 1963 coll’istituzione di un vero vademecum: dal film positivo al film «gravemente offensivo della dottrina o della morale cattolica». A decidere l’improbabilità di tale criterio, un nuovo e più agevole aggiornamento nel 1974: il film sarà catalogato «raccomandabile, accettabile, discutibile e inaccettabile» nella trama; nella tecnica del racconto: «semplice, difficile, realistico, scabroso, ambiguo, licenzioso, negativo». Ricordiamo a tal proposito, come la Chiesa si riservi tuttora d’indicare la via, la strada, togliendo al fedele ogni possibilità critica, invitandolo semmai – come avviene sempre più – alla diserzione e allo svincolamento di ogni legame. La Chiesa, infatti, non dialoga o meglio, non auspica un dialogo: il suo è un monologo.

Nel nuovo millennio, la longa manus inquisitoria si svolge sulla fruizione totale dei prodotti mediatici, in generale, sempre più in contrasto con la rigida morale cattolica.

Il testo argomenta, raccogliendo i giudizi espressi dalla critica ufficiale del cattolicesimo, il cinema del grande visionario di Rimini.

La critica non fu affatto tenera nel giudizio sull’opus felliniano, a partire da «Lo sceicco bianco» (1952), che, seppur «diretto con molta cura dal Fellini, […]  comprende scene con donne in costumi succinti, episodi alquanto scabrosi, battute inopportune, che impongono riserve. La visione è ammessa solo per adulti di piena maturità morale». Oggi, un tale giudizio smarrirebbe il fiero rappresentante di certa traduzione cristiana del messaggio di Cristo. Ciò dovrebbe indurre ognuno di noi a rivalutare, anche nell’ambito morale, il relativismo, poiché, nello svolgere con onestà il proprio ruolo, l’uomo è figlio – vittima – carnefice delle contraddizioni del suo tempo e quindi anche il suo giudizio non potrà che essere confinato nello spazio, in cui è annunciato e difficilmente potrà prolungare il suo valore nella crescita individuale e sociale dell’umanità.

Il racconto de «I vitelloni» (1953), caratterizzato dalle piccole storie di alcuni ragazzi di provincia necessita l’uso della memoria, che tanto rappresenterà nel corpus felliniano. Salvata la fotografia del film, la censura rimproverò il racconto della vita dissoluta, consigliandone la visione «agli adulti in piena maturità morale».

Ne «La strada» (1954), l’articolista si soffermò su alcune battute, in cui il Matto descriveva l’utilità di un sasso all’ingenua Gelsomina: «E anche tu, anche tu servi a qualcosa, con la tu’ testa di carciofo». Ecco: l’importanza della vita, per cui non si verrà al mondo per pura casualità, ma per svolgere un ruolo chiaro, identitario ed irripetibile, tantoché, nella visione del Matto, se il sasso fosse stato inutile, lo sarebbero state anche le stelle: il continuo rapporto tra Uomo e Macrocosmo, tra creatura e realtà generatrice.

La strada di Federico Fellini. Zampanò e Gelsomina

«Il bidone» (1955) risultò invece un lavoro ben calibrato soprattutto nella descrizione della psicologia del protagonista, anche se rimase sospeso il giudizio sull’effettivo indirizzo positivo, che l’autore volle indicare al pubblico.

Il cinema di Federico Fellini è un condensato di ricordi, memorie, tradizioni raccontati con «l’innocenza interiore e il sogno», che caratterizzeranno le opere realizzate dagli anni ’60, le quali denunceranno profeticamente l’inevitabile sbando della società italiana, sempre più dimentica dei propri valori (anche cattolici) e delle proprie radici.

«La dolce vita» (1960) rappresenterà il margine, oltre il quale si porrà l’accesa critica cattolica, verso il mondo dell’immaginario felliniano, assai poco lungimirante sul carattere non solo artistico ma di denuncia – appunto – dell’inevitabile crollo anche dell’ideologia cattolica all’interno di singoli modelli di comportamento sociale. Anziché offrirsi ad una disamina dell’origine della crisi dei valori, la Chiesa – come nel suo stile – incolpa l’uomo di ogni peccato, nascondendo le proprie responsabilità inoppugnabili nell’incapacità di dialogo, chiusa in un perfetto ermetismo dogmatico.

La Chiesa incolpò il regista, che descrisse con troppa superficialità il carattere lascivo e sfrondato da ogni riferimento morale dei protagonisti del film, come se non fossero stati raccontati nei tipi societari, ma provenissero da un mondo incantato e instupidito da troppa faciloneria.

Padre Nazareno Taddei, «in odore di eresia», provò a significare le profondità spirituali de «La dolce vita»:

«È un’intuizione splendida quella che ha guidato Fellini nell’aprire il film con la sequenza del Cristo e nel chiuderlo con quella di Paolina: l’intuizione dell’Incarnazione del Cristo che continua – sebbene non avvertita – nel suo Corpo Mistico e che si fa visibile attraverso il volto dell’innocenza in un mondo impastato di peccato. Ed è nella luce di questa imponente intuizione che si può capire il pieno significato tematico de La dolce vita».  L’intuizione di Padre Taddei s’ispirò ad una chiave di lettura chiaramente simbolica, alquanto sofferente alla gerarchia cattolica dell’epoca.

Il giudizio fin troppo morbido sull’opera del grande regista costerà al Padre l’allontanamento da ogni incarico (Cristo non spiegò come la comprensione, oltre i propri limiti, fosse un’arma degna di essere usata?) dall’allora Arcivescovo di Milano, Monsignor Montini. Rammentiamo che la visione del film fu esclusa dal circuito cinematografico parrocchiale, che, negli anni ’60, controllava circa il 50% degli schermi italiani.

Nell’articolo è anche ricordato il rapporto esplosivo tra la cinematografia di Pier Paolo Pasolini e il vertice cattolico, che rimescolò il suo giudizio negativo in occasione del «Vangelo secondo Matteo» (1964), attribuendo al regista il premio OCIC alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia e sottoponendo alla visione del film i padri conciliari riuniti a Roma.

«Le notti di Cabiria» (1957), pur essendo protagonista una prostituta, ricevette la «menzione» dall’OCIC nell’ambito del Festival di Cannes, perché «il delicato e difficile tema […]  è trattato dal regista con grande impegno e con abile tecnica. Il film (anche per merito della magnifica interpretazione della protagonista) raggiunge momenti di autentica poesia. […] L’impostazione del film è positiva».

La censura tornò invece a colpire con durezza – come abbiamo già accennato – «La dolce vita» a causa dell’evidente smarrimento morale del protagonista, Marcello, e dalla scarsa obiettività del regista nel racconto della società, «che presenta evidenti sintomi di disfacimento e di insensibilità morale». Si, è vero; Fellini racconta una società, che segna evidenti tracce di decadenza. Sua la colpa della deriva? Egli non si è forse preoccupato di raccontare ciò che era davanti ai suoi occhi? La colpa è sempre degli altri e…amen!

«8 e 1/2» (1963) meritò un giudizio maggiormente compassionevole, pur risultando il racconto della crisi del protagonista «disomogeneo» e quale vittima per causa del progressivo allontanamento dai valori cristiani, che gli procureranno «la perdita di se stesso nelle false mire dell’egoismo, della sensualità, sconfinando negli oscuri e complessi sensi di colpa», per cui si consiglia la visione «per adulti con riserva».

IIn «Giulietta degli spiriti» (1965), il Maestro si confrontò col mondo della psicanalisi e dello spiritismo, in un contesto «non sempre di chiara interpretazione», perché spesso ordinata in «messaggi simbolici ed immagini emblematici», che avrebbero determinato il «disordine» (sic!) narrativo. Fin quando ci limiteremo ad una interpretazione letterale – e vagamente semplicistica di certo cinema felliniano, emetteremo un giudizio approssimativo e spesso erroneo. Del film ne sarà sconsigliata la visione, poiché non evidenzierà «alcuna novità» nel processo interpretativo, che oltretutto azzarderà un grave miscuglio tra sacro e profano con chiara condanna di certa metodologia educativa cattolica unita ad «immagini lascive».

Estremamente rigida fu la critica a «Fellini Satyricon» (1969) come, successivamente al «Casanova di Federico Fellini» (1976), – a nostro avviso – una delle pellicole meglio riuscite nel rappresentare il vasto mondo simbolico del grande Maestro. La critica fu addirittura sprezzante: «È la rappresentazione, fortemente soggettiva, di un’umanità in disfacimento, di mostruose creature senz’anima occupate in sordidi piaceri», in una sovrabbondanza di simboli «sempre più indecifrabili» (!) e d’immagini, che vertono ad un linguaggio troppo allusivo di corpi consumati dal delirio erotico.

In «Amarcord» (1973), Fellini ritornò alle sue origini, attribuendo a Titta le sue interpretazioni ora amare, ora dolci, laddove prevalse una visione fin troppo pessimistica della realtà odierna in un linguaggio a volte volgare, «sul quale l’opera ironizza. […] Fellini conserva vibrazioni liriche e offre sfumature poetiche», seppur soffocate da un cielo sempre nero, che appesantirà lo spettacolo.

Ne «La città delle donne» (1980), Federico Fellini si confronta con l’immaginifica altra parte del mondo. Spiazzò così l’accigliata censura cattolica, la quale avrebbe indagato con qualche difficoltà nell’animo del possibile spettatore, avvinto da tanta «sfrenata fantasia,  e dalle numerose invenzioni figurative». Si rimproverò al Regista l’eccessiva verbosità, l’ampollosità, che straripavano all’interno di ogni singola scena, rivelando affatto l’universo femminile, semmai il conscio o subconscio della sua memoria e l’eccessivo prolungarsi di immagini sessuali «assai pesanti».

Gl’inizi degli anni Ottanta, sembrerebbero rendere una possibile tregua da parte della censura cattolica: «E la nave va» (1983) e «Intervista» (1987). Nel primo, si racconta un viaggio – il viaggio della vita -, durante il quale il glorioso melodramma abbandona definitivamente la scena della cultura italiana, che s’impoverisce nutrendosi del condannabile, vuoto messaggio televisivo e dei nuovi media di massa. Finalmente, la critica cattolica sembra osservare un nuovo metodo d’indagine, dal momento che raccomanderebbe di «gustare e valutare «E la nave va» come opera di poesia». Finalmente! Deo gratias.

L’«Intervista» (1987) è giudicato «un grande spettacolo e, al tempo stesso, autocelebrazione per le tante citazioni che il regista ci propone» con sottile narcisismo e nostalgia, tra sogno e realtà, tra finzione e ricordi, cui prendono parte con affetto anche le maestranze, che recitano attivamente all’interno del film. Così il Maestro rivela i propri trucchi, agita la trasformazione dell’attore in clown, cialtrone o gladiatore, variando uno «spettacolo policromo e rumoroso, variato ed affascinante». La chiosa è imbarazzante: «Accettabile».

L’ultimo film del Maestro, «La voce della luna» (1990), è rappresentato quale rapsodia del fantastico, quale inno «alla vita ed ai suoi valori», con vaghe reminiscenze amarcordiane. Si rivela la denuncia della ormai imperante società dei consumi, dell’omologazione del pensiero ed al ruolo invasivo della televisione con i suoi ritmi sregolati. I due coprotagonisti, Ivo (Roberto Benigni) e Gonnella (Paolo Villaggio) si muovono il primo all’interno di un candore estatico, alla ricerca ingenua e delicata della propria innamorata e sciogliendo un inno a favore di tutte le donne, meritevoli di particolari omaggi da parte dell’uomo innamorato; l’altro ossessionato da complotti e tranelli, chiuso nell’angoscia del vivere, che si rivela all’interno del suo mondo burocratico, in cui è esaltata la mancanza affettiva e verificata una triste solitudine. All’interno di una società ormai impazzita, solo Ivo sarà in grado di ricevere  i messaggi della Luna, mentre Gonnella spezzerà la confusione della musica da discoteca, rifugiandosi in un elegante ed ormai trascorso valzer. La chiave di lettura è senz’altro la poesia, che ci regalerebbe il fascino del mistero e del silenzio in un continuo recupero di reminiscenze antiche.

La voce della luna di Federico Fellini. Ivo e Gonnella

A ragion di memoria, dobbiamo ricordare che l’aspetto censorio fu anche proprio dello Stato, soprattutto negli anni Sessanta – Settanta, caratterizzati da forti cambiamenti in seno alla società italiana anche riguardo al costume. L’articolista ricorda gl’interventi su «La ricotta» (1963) di Pier Paolo Pasolini ed «Ultimo tango a Parigi» (1972) di Bernardo Bertolucci, al fine di preservare il senso del pudore all’interno di una società ormai dilagante verso un allargamento dei codici identificativi.

I film di Federico Fellini pagarono il prezzo della visionarietà in una critica non sempre all’avanguardia e pronta a ricevere i nuovi stimoli intellettuali, frutto di un sapiente lavoro sull’interiorità dell’uomo, ben mai guidata da confini dogmatici indagatori. Il Regista si rivelò anticipatore delle «debolezze dell’uomo nuovo negli anni Sessanta», sperimentatore del progresso derivante dal boom economico, finendo vittima dei suoi stessi eccessi. La Chiesa si preoccupò di preservare l’«ingenuo» spettatore da spettacoli, che avrebbero potuto ferirlo nella sua integrità, consigliando l’eventuale visione ad «un pubblico adulto in piena maturità morale» o addirittura sconsigliandone la visione. Questi giudizi così inappellabili denuncerebbero esagerazione e stonature eccessive, figlie di un’epoca ormai trascorsa, che oggi non testimonierebbero più alcuna audacia, rivelandosi come capolavori fuori dal tempo.

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