«La voce della luna» di Federico Fellini

Può parlare la luna? Con quale linguaggio, con quale lingua comunicherebbe? Chi ascoltasse la luna, sarebbe in grado di capire i suoi messaggi? E cosa potrebbe avere da dirci la luna? Forse racconterebbe dell’universo, del suo rapporto col re sole e cogli altri pianeti. Ci racconterebbe della luminosità delle stelle, cui tanti amanti guardano nel cuore della notte.

E così la nostra storia inizia durante una notte con il cielo ingombro di nuvole piccole ed attorcigliate; un pozzo occupa l’intera scena di un prato affatto curato, con delle erbacce, in alcuni punti, alte; una nebbia fitta a chiazze rende questo ignoto paesaggio misterioso, altero. Ivo Salvini (uno straordinario Roberto Benigni) guarda immobile verso il pozzo, che lo chiama per nome. Dopo qualche esitazione, s’incammina verso quelle voci

Nuovamente si ferma, si guarda attorno, ma non trova alcuno, uno sguardo poi a Selene. Finalmente si volta verso la camera. I capelli sono disordinati, inforca degli occhialini alla John Lennon sul naso pronunciato, che sembra render ancor più magro lo scarno viso. Una sciarpa rossa sottile attorno al collo, la camicia bianca dal grande colletto, che si appoggia su una giacca nera lisa; i pantaloni a righe grigie.

Ricorda la figura del clown e quindi della fantasia, della spensieratezza, quella «mano sinistra», che ama non essere imbrigliata dalla rigidità di Saturno. Si rivolge ad un auditorio immaginario, per chiedere conferma dell’autenticità delle «voci», provenienti dal pozzo, che nella sua forma è un cilindro, che buca la «terra». Simbolicamente un invito a guardare all’interno di noi stessi, per scoprire le nostre «voci interiori», forse provenienti appunto dalla luna, dall’ispirazione, dall’intuizione, che non può essere cercata, infatti appena Ivo prova ad avvicinare l’orecchio, esse tacciono.

Qualche voce, ma…non della luna: un gruppo strampalato di sette (come i pianeti antichi) uomini, che ripetono ritmicamente: «Viva la gnocca»; sono ancora lontani dal pozzo, sicché Ivo può facilmente trovarvi riparo. Colui che ritira dei soldi dagli altri, con indosso un giubbotto rosso spento, sorride verso un casolare di campagna, con un porticato illuminato, sotto al quale delle grosse balle di fieno sono appoggiate al muro. Il crocchio maschile si avvicina lentamente, qualcuno fischietta ed invita Ivo, che li segue a distanza, ad unirsi alla compagnia. Un motivetto allegrotto si ode all’interno della casa; il gruppo si posiziona vicino ad una finestra, per sbirciare all’interno di una stanza matrimoniale, dove la zia di uno degli amici offre un casto spogliarello seguendo il ritmo della musichetta ed agitando il seno generosissimo, mentre divora una mela (simbolo del peccato) a morsi. La donna è in là cogli anni, lo dimostra anche una pettinatura fuori moda, accompagnata ad una «tinta» impossibile. Apre generosamente l’accappatoio, mostrando delle gambe assai robuste coperte da un reggicalze bianco. Si muovo sgraziata per la stanza, mentre gli uomini continuano a spiarla vogliosi di forme assai generose.

Il senso del peccato è presente e rappresentati in ogni film del grande Maestro, probabilmente reminiscenza di una certa cultura cattolica, centrata su una pastorale fin troppo esaustiva sul ruolo del sesso, interpretato come mezzo per la perdizione eterna, se non esercitato ai soli fini procreativi.

La donna si sfila una calza, agitandola con voluttà verso la compagnia e continuando lo sconnesso ancheggiare. A questo punto, il nipote della «spogliarellista» reclama il pagamento anche da parte di Ivo, il quale è sprovvisto di soldi. Arriva, addirittura, a minacciarlo con un coltellino e rincorrerlo per averne ragione, fin quando è invitato alla calma dagli amici, che interrompono la bella visione. Ivo è rimasto assai colpito dal seno generoso della donna e ricorda come la mitologica Giunone, sembrava, avesse un petto così grande, che dal latte fuoriuscito si sarebbe formata la via lattea.  La donna, accortasi di essere stata spiata, urla agli uomini di allontanarsi immediatamente, quando giunge il becchino, Pigafetta (Franco Javarone), che reca con sé una bicicletta e invita Ivo ad accompagnarlo verso il cimitero. Durante il tragitto, l’uomo domanda preoccupato se Ivo abbia ancora una volta sentito quelle «voci»: è risaputo in giro che egli parli con la luna.

Le nostre «voci interiori», che spesso rubrichiamo quali «coscienza», «inconscio», «subconscio», ci accompagnano ogni attimo della nostra esistenza, insistendo con visioni, sogni, premonizioni, perché siano ascoltate. Anche se ci tappassimo le orecchie, come a volte prova Ivo, esse continuerebbero a parlarci.

Pigafetta distoglie dall’autenticità di quelle parole, che descriverebbero un mondo inesistente.

La realtà odierna, che vorrebbe confinare l’uomo nella sua dimensione infera, spronarlo verso un’esecuzione esclusivamente orizzontale dei suoi desideri, tarpando così ogni legittima elevazione verso stati superiori, verso quella parte angelica, che lo condurrebbe al di fuori del triste viver quotidiano e quindi magari ad intervenire nella realtà, al fine di cambiarla. Pigafetta è parte di quell’umanità, che completa la sua esperienza nell’esclusiva dimensione infima: in fondo, cambiare non si può più.

Improvvisamente una coppia, che sta litigando; lei, dai toni alti della voce, sembrerebbe assai adirata coll’uomo, che la segue con un trench appena appoggiato sulle spalle. Ivo rivolge spesso lo sguardo verso il cielo, dove la luna sembra tacere.

Pigafetta entra nel cimitero, dove trova l’adirata Donna Geltrude, che sta preparando il marito per la notte, che trascorrerà, all’interno di un loculo. L’uomo indossa un berretto blu e dei vestiti assai pesanti dai colori impossibili; mangia delle zucchine, preparate dalla moglie, che non riesce a spiegarsi quell’assurda decisione: «un professore di contrappunto».

Con la ragione non riusciremo a trovare la chiave, per comprendere le nostre azioni, se non la uniremo allo strumento dell’intuizione, che contempli anche la cosiddetta «pazzia», come possibile soluzione al nostro distratto vivere.

Secondo il «professore di contrappunto», la musica sarebbe violenta, al punto tale da dover essere proibita; infatti, nella sua esperienza professionale, suonando una certa soluzione intervallare, aveva provocato addirittura lo spostamento di alcuni mobili di casa.

La musica, essendo linguaggio privo di lettere, riservando all’esclusiva vibrazione la comunicazione, conserverebbe, nel corso del tempo, un carattere magico, agente sul cambiamento interiore di chi ascolta. Tale caratterizzazione potrebbe essere stata rappresentata dal Maestro con il concomitante spostamento dei mobili al suono di una particolare melodia, rubricata, in epoca medievale, «diabolus in musica», comportante l’esecuzione di tre toni consecutivi di difficile ed ardua intonazione.

Il «professore di contrappunto» paragone tale scelta intervallare ad una «lucertola che corre dal coccige alla nuca», agitando quindi la kundalini, l’elemento vitale;  e la musica avrebbe anche il compito di «svegliare» e «ris»vegliare sentimenti, emozioni e sensazioni in chi ascolta.

Un’altra sera, mentre il nostro professionista provava all’oboe sempre quel maledetto intervallo, si prefigurò in cucina un uomo grasso e vestito male, «il grande mangiatore», che stava svuotando il frigorifero.

Il «professore di contrappunto» ricorda con notevole disappunto il rumore fastidioso della masticazione dello scomodo inquilino domestico.

Un’altra sera ancora, sempre quando era intento ad eseguire il solito «passo», si manifestarono i «caporioni», tre distinti signorotti: l’uno calvo, con un foulard attorno al collo, la giacca blu abbottonata sul davanti e lo sguardo accigliato; l’altro con una lunga barba dottorale, il viso rubicondo solcato da occhiali di tartaruga, ed infine il più giovane con un volto anonimo, il nodo della cravatta a sghimbescio sotto una giacca color grigio. I tre erano nel salotto del «professore di contrappunto», pronti all’interrogatorio. Il musicista accampa scuse, per le inevitabili difficoltà prodotte dall’esecuzione di quel «passaggio infernale», tanto che dovrebbe essere sempre vietato, poiché sarebbe la porta per l’ingresso dei fantasmi, che fagociterebbero l’uomo, riducendolo schiavo delle sue passioni e di quella «parte oscura», di cui si ha spesso paura. La musica dovrebbe essere fonte di «gioia, serenità, oblio» e tanto agognata felicità, ma, a causa di quel «passaggio», ciò non avverrebbe.

Ecco presentata la Diade, caratterizzazione di qualsiasi evento speculare, che vive dell’accostamento degli opposti, per ricercarne l’unità, secondo il concetto antichissimo dell’alchimia. L’intero passaggio è vissuto tra sogno e realtà, nella rappresentazione di ciò che è stato, che s’innesta sull’oggi; una studiata confusione tra passato e futuro, in cui lo spettatore sembra smarrire il senso del tempo, poiché il tempo non esiste: tutto è attimo.

Nelle notti di plenilunio, quel motivo vagabonda nel paesaggio, che circonda il nostro «professore di contrappunto», tantoché lo sente risuonare incessantemente nella sua testa: melodia nota solo a lui. Ivo, intanto, che stava curiosando all’interno del piccolo cimitero, trova la tomba del nonno. Percorre una scala e raggiunge il loculo, posto in un palazzetto, in alto.

«Possibile che non si sappia più niente di voi? Mai di nessuno?», rivolgendosi verso i loculi.

Ecco l’appuntamento con il passaggio supremo, la grande iniziazione; le solite domande, che l’uomo si pone ed a cui la religione prova a fornire delle non sempre esaustive risposte. Moriamo, e poi? Ivo s’interroga, lasciando che la domanda si perda nel fresco di quella notte. Poi vorrebbe immaginare «un foro, un buco, che va dall’altra parte», ma scuote sconsolato la testa: se ci fosse, dove sarebbe?

Alzando gli occhi verso la candida signora, vede, con sua enorme sorpresa, che, effettivamente, sul soffitto del palazzetto, che accoglie i resti di chi non c’è più, è praticato un foro.

Catturato dalla curiosità, lo raggiunge; il vento soffia deciso, mentre Ivo guarda lontano, attratto dal gracidare di un corvo, che, richiamato da Pigafetta, gli svolazza attorno. Intanto Gertrude abbandona il «professore di contrappunto» ed il cimitero, incamminandosi borbottando. Un improvviso cambio degli Elementi determina una pioggia torrenziale (l’elemento Acqua – come sappiamo – è collegato alla Luna): Ivo sorride felice, riparandosi sotto la giacca, che sposta sopra la testa a mo’ di ombrello nel raggiungere un albero poco distante. Alla pioggia, si aggiunge un vento terribile e dei tuoni sconquassano il cielo ed Ivo ricorda, quando era bambino…

Ecco il sogno, che interrompe il viver quotidiano.

Un’anziana signora si muove tra i campi alla ricerca del nipote: «Pinocchino!». Di Ivo non vi è traccia, fin quando troviamo l’allegro bambino, in sembianze di adulto, ripararsi dalla pioggia sotto l’ampia gonna nera della nonna. Seduto all’angolo di una stanza ben riscaldata, «Pinocchino» – Ivo assaggia del latte caldo, tenendo una grossa tazza bianca con le due mani, mentre la nonna è intenta a stendere in casa i panni fradici, per poi rassettare il letto in preparazione della notte. Il bimbo con sembianza d’adulto è abituato a tirar tardi e così racconta alla nonna che, durante la mattinata, si è avvicinato ad un pioppo, di cui ha sentito le radici, sprofondate nella terra, ed i rami come braccia e nei suoi capelli, trasformati in milioni di foglioline, un’arietta fresca. Da quell’altezza, ha visto il paesaggio «piccino» e lontano. La nonna interrompe il racconto, per invitarlo a coricarsi, anche se il nipote merita di sbirciare cosa ci sia sotto il letto. E così scopre un «mondo di cose»: il fuoco, che arde in un camino antico.

«Dove vanno tutte quelle scintille? Il fuoco, quando si spegne, dove va? Come la musica, che nessuno sa dove va, quando finisce». Vorrebbe fermare quelle scintille, ma è inutile, vano.

Il racconto del sogno, l’universo insondabile, inspiegabile, mai preventivabile; l’altra vita che ognuno di noi vive, completamente vittima di eventi nebulosi, a cui si cerca di fornire una risposta razionale. Già; ricorriamo sempre all’approccio razionale, per concettualizzare ciò che sfugge a qualsiasi indagine.

La nonna ormai si è assopita; Ivo fissa la luna, che si affaccia appena dalla finestra della camera da letto, mentre ricorda un antico sogno. Durante un violento temporale notturno, si recò a casa di Susy (Syusy Blady). La sua attenzione fu catturata, per qualche istante, da dei manichini di abiti da sposa, che sembravano, all’interno di una vetrina di un negozio, partecipassero ad una strana danza evocatrice. Susy lo invitò in casa ed, essendo preoccupata dei suoi abiti bagnati, gli accomodò sopra le spalle il suo pesante cappotto rosso. Con una candela tra le mani, Ivo procedette verso l’appartamento della donna, che schiuse l’uscio ed Ivo entrò acquattato, schermandosi col cappotto, per poi lasciarlo pesantemente cadere.

Ecco, dentro un letto, una donna dal viso dolcissimo: Aldina, la sua musa, pallida, il suo amore segreto. Egli la rimira estasiato da lontano, attento a non destarla: «E’ come la luna! E’ lei la luna. Che fai tu luna in ciel? Dimmi che fai, silenziosa luna», canta gli antichi versi alla sua innamorata, che improvvisamente si desta sorpresa di essere ostaggio visivo di Ivo. Inizia a gridare, tira una scarpa argentea, che viene immediatamente raccolta dall’innamorato e conservata preziosamente come una reliquia. Lascia velocemente l’appartamento rincorso dalle grida della donna, sempre più violente.

Un sogno, che diventa reale; un sogno premonitore. Pensare nessun collegamento tra il nostro mondo onirico e quello reale è un errore: Ivo ci dimostra come potremmo rivivere, nella nostra carne, qui sogni, che ci trasportano in una realtà deformata o forse informe, soggetta alla plasticità del cambiamento.

Il prefetto Gonnella (un Paolo Villaggio drammaticamente irriconoscibile e sorprendente) è fermo sulla piazza del paese, dove impera una moderna chiesa, che di sacro sembra – almeno dalle apparenze – non posseder nulla. Un ombrello lo ripara dalla pioggia; indossa un cappellaccio calato sugli occhi, un trench mai andato di moda ed un vestito blu rigato dai colori sbiaditi. E’ inseguito dal suo medico, che lo invita a rincasare, mentre l’autorità ripete più volte come stia ancora lavorando. Il dottore lo segue fino a casa, quindi lo abbandona. Scopre che ad attenderlo sono i suoi dirimpettai: quattro anziani malmessi e cenciosi, preoccupati che la pioggia avrebbe potuto causare un malanno al non più giovane prefetto. Appena gli parlano di una torta, dal viso un guizzo di interesse, di partecipazione sembrerebbe scuoterlo, quindi abbassa lo sguardo e rassegnato guadagna la porta di casa. Il prefetto non può fare a meno di vedere, attraverso il buco della serratura, se qualcuno lo stia spiando; allora posiziona la sedia verso la porta di casa, mostrando il suo di dietro al sorpreso vicino, che sorride amabilmente.

Nuovamente la dimensione onirica irrompe nel film. Il prefetto è a letto e sogna di ricevere nella sua stanza i quattro simpatici vicini, che si preoccupano di vegliarlo durante il sonno. Il poveretto è rassegnato a dover convivere con l’incubo, poiché non è certo il miglior sogno, che desideri sognare. A nulla valgono le urla, i rimproveri e gl’insulti, che indirizza verso lo strano quartetto, che, nel momento in cui il prefetto lascia il letto, scompaiono, cosicché si trova a combattere contro delle ombre, contro le sue ombre, le nostre ombre. All’interno di un armadio, mira un vecchio ritratto, a cui confessa la sua impotenza di fronte al sogno, quindi chiude l’ansa, mentre una campana annuncia l’arrivo del nuovo giorno.

Sulla piazza principale del paese, si riunisce la solita folla in occasione del mercato; la situazione è resa ancor più caotica anche da un trasloco in corso. Un gruppo di giapponesi fotografano da qualunque angolazione, mentre, vicino ad un monumento, dorme ancora Ivo, che si desta lentamente, accorgendosi delle persone, che gli ruotano attorno. Si precipita presso un turista orientale, al quale sfila dal collo la Polaroid, per immortalare lo scampanio. Tenta inutilmente di spiegare la bellezza del movimento della campana al turista, poi, appena, la foto appare, un smorfia di delusione gl’incrosta le labbra: non è riuscito infatti a intrappolare i «dischetti di color argento antico», che dichiara di vedere attorno alla campana.  Auspica che presto l’umanità possa fotografare tutto ciò che vede al di là del fatto reale. Ancora una volta, la riproposizione della medesima immagine: unire ciò che apparentemente è contrapposto. La fantasia alla realtà, il sogno alla veglia; in ultima analisi, unire ciò che è opposto, per ricomporre l’Unità.

Alcuni scaricano da un camion delle statue della Vergine, seguiti dalle pie donne, che chiedono la grazia, mentre un «commendatore» arriva con l’autista; scende dall’automobile, per recarsi ad un incontro col direttore della banca, riverito da alcuni impiegati, che erano ad attenderlo. Un avvocato (Eraldo Turra) si chiede, perché la Vergine appaia sempre a persone non colte; preferirebbe infatti che scegliesse delle persone istruite, al fine di soddisfare curiosità teologiche più profonde. Intanto il sacerdote, che aveva assistito al trasporto delle statue, entra in chiesa, fingendo di non aver ascoltato il parere dell’avvocato. E proprio in quel momento, esce dalla chiesa una duchessa, che chiede ad Ivo se abbia incontrato un non specificato «lui». La risposta è ovviamente, no. Ivo la segue con lo sguardo, mentre sia allontana, infagottata in una vecchia pelliccia sopra ad una camicia dai mille colori mentre un grande fazzoletto le trattiene i capelli.

Intanto il mercato, si popola di venditori ed Ivo incrocia lo sguardo del suo psicologo, al quale rivolge ancora parole di ringraziamento per l’assistenza ricevuta. I due si seggono sui gradini della chiesa, mentre Ivo ricorda particolari dei suoi sogni, che lo psicologo sembra rimembrare anch’egli, come il sogno della saracinesca, che Ivo ricordava chiusa, mentre lo psicologo insisteva che fosse aperta. Nascosta sotto la giacca, Ivo scopre la scarpa, che aveva sottratto ad Aldina, mentre lo psicologo la interpreta appartenuta a Cenerentola e così offre una spiegazione a quel simbolo, che immediatamente il protagonista raccoglie.

Alcuni lavoratori stanno praticando un foro nella strada; Nestore (Angelo Orlando), che ha tra le mani un triangolo isoscele, si rivolge ad Ivo, avvertendolo che «prima o poi la luna ti sputerà in testa», mentre suo fratello, Giuanin, che a sorpresa è emerso dall’ampio buco praticato, scuote per i piedi il povero Ivo. E’ una scusa, perché i due possano scambiare qualche parola; il Giuanin parla una lingua incomprensibile e Nestore prova a tradurlo: la luna comanderebbe le pene ed avrebbe anche comandato a Giuanin di stare all’interno di quel foro, sempre più simile ad un inferno, che attraverserebbe tutta la città. Ivo vorrebbe visitare quel foro, ma è trattenuto dall’operaio, il quale anche di giorno vede la luna, e continua il suo sproloquio sui vermi, sui tubi stretti e sui diavoli. Siccome la luna comanda sulla terra, l’uomo dovrà toglierla di mezzo prima o poi; quindi  Giuanin si rintana nel suo foro e sparisce.

Ivo vede Marisa la vaporiera (Marisa Tomasi) piangere sconsolata contro un muro; stenta ad avvicinarsi, poi, non si sa come, prende coraggio e le chiede il motivo di così tante lacrime. La donna è dispiaciuta dell’avvenuto divorzio dal marito, che avrebbe evitato, poiché si sente ancora molto legata a quell’uomo.

Marisa trova conforto e sostegno tra le braccia dell’Ivo, mentre un centauro, in modo poco signorile la invita a seguirla; la prende in braccio, per caricarla sulla moto, recandola con sé. Ivo, che si è dimostrato assai gentile, assiste impassibile, chiedendosi come mai certe donne preferiscano sostituire la gentilezza e l’educazione, lo sfottò ed alla violenza, che certi uomini sembrano praticare sapientemente.

Ciò, qualche volta, accade anche nella vita, quando incrociamo coppie con la lei delicata e femminile, a fronte di un lui sfrontato e deciso a non rispettare punto le giuste rimostranze della donna. Miracoli della vita…

Nestore (Angelo Orlando), l’ex marito di Marisa, invita Ivo a seguirlo nell’appartamento, che si sta svuotando del mobilio; una lavatrice è stata lasciata in un angolo ed immediatamente attrae l’attenzione dei due ritrovati amici; Nestore ricorda «il suono misterioso» della centrifuga, simile ad una voce umana.

Ancora una volta, irrompe il passato, quando Nestore racconta dell’evento, in cui conobbe la sua ex moglie, che lavorava come manicure in una barberia, osservata da tutti i clienti. Nestore si accontentava di sbirciarla al di là dell’ampia vetrina, che si apriva sulla piazza principale, fin quando, un giorno, prese coraggio e si accomodò sull’ampia poltrona, per essere sottoposto anche alla cure da parte della donna, che indossava un abitino rosso fuoco assai corto sopra un camice rosa sbottonato

L’imbarazzo di Ivo era piuttosto evidente, quando Marisa iniziò a complimentarsi per le «belle mani da pianista» e, giocando, s’improvvisò chiromante, prospettando tutto il bene e la fortuna del mondo ed evidenziando il carattere sessuale «interessante» del cliente, il quale chiese alla gentile signora, se fosse sposata e ricevendone un diniego, si augurò di poterla presto impalmare.

Così, un bel giorno al «Las Vegas di Settimio» si sarebbe tenuto un banchetto di nozze, che ricorda tanto il famoso matrimonio della «Gradisca» di «Amarcord», al termine del quale i novelli coniugi sarebbero poi partiti a bordo di una Mercedes bianca

Torniamo nel presente. Nestore ed Ivo si trovano sul tetto dello stabile «per non essere niente, come aria». E così il passato torna, ancora una volta, nel racconto del rapporto consumato con Marisa, sempre piuttosto provocante e discinta in cerca di forti emozioni e Nestore piuttosto intimidito da quella corte così serrata.

A letto però l’uomo avrebbe preferito dormire, lasciando la moglie insoddisfatta, che si sarebbe svegliata con la medesima voglia di amore, costringendo il povero e debole maritino a far tardi al lavoro, per soddisfare almeno in parte i suoi appetiti.

Marisa ideava dei posti particolari dove fare l’amore, accompagnandosi ad un marito disinteressato al mondo della seduzione, tanto da arrivare al rovesciamento dei ruoli: ad un’arrembante moglie avrebbe risposto un marito indeciso.

E’ tipico di certe interpretazioni cinematografiche felliniane lo scambio dei ruoli, laddove il talento è distribuito non secondo le facili categorie umane, ma vive spesso in un contesto completamente indecifrabile; in questo caso, il «Fuoco» è nel corpo della donna; l’«Aria» nell’uomo.

I due si uniscono sul salotto, davanti ad una luna straordinariamente grande, mentre le lampadine si accendono e si spengono, partecipando così all’amplesso, che diventa sempre più violento, come la locomotiva di un treno, che prende velocità a poco a poco. La furia dei due amanti sembra scatenare la furia degli Elementi, per cui il cosmo sembrerebbe partecipare all’evento. Grazie a quell’evento, Nestore avrebbe conosciuto l’esperienza del volo, riconoscendola quale propria vocazione; ecco l’amore che trasforma l’uomo in essere divino, capace di strappare gli ultimi aneliti tellurici e vivere nella pura essenza, impalpabile, rarefatta del suo essere.

Nestore spiega ad Ivo che, al fine di vivere la medesima esperienza di «volo», dovrà imparare ad aprire il plesso solare e così gl’indica il punto esatto del busto, laddove è nascosta la famosa scarpetta argentea di Aldina. Dalla piazza, qualcuno si accorge che ci sono due uomini sul tetto; accorrono i mezzi di soccorso, che trasportano al sicuro i due. Terzio, che ha la briga di condurre al suolo Iva, gli confessa che una sera con una forcina catturerà la luna, ma solo quando si manifesterà «bella e matura».  I due amici ritrovati si abbracciano, mentre la folla raccolta a terra applaude. Arriva la sera e così la gente si riversa nelle strade; dei bambini incuriositi fissano lo strano balletto di un manichino vestito da Charlot, all’interno di una vetrina. Ivo scorge tra la folla Aldina, che indossa un cappotto color argento; ed ecco la figura della donna, che si specchia nelle vetrine, rincorsa dallo sguardo innamorato dell’uomo, consapevole solo della sua impotenza davanti a tanta bellezza: così come sia impossibile catturare la luna, è anche impossibile conquistare il cuore della donna.

Questa parte del film ricorda la «passeggiata» in «Amarcord»: l’arrivo su un’importante carrozza delle «donnine allegre» e il corteggiamento diseducato dei «ragazzi» verso la Gradisca. L’atmosfera è la medesima, cambia solo il paesaggio.

Aldina si fissa di fronte ad una vetrina, che espone un abito intimo nero, mentre Ivo prega Susy di avvicinarsi alla sua musa, perché si lasci avvicinare, al fine di ricevere la scarpa argentata, che l’uomo aveva catturato nel racconto del sogno – realtà. Non c’è speranza: Aldina non ne vuol sapere. Ivo accoglie il diniego con dolore e si smarrisce nella folla, fin quando si scontra involontariamente con il Prefetto, anche lui in pieno «struscio», il quale si lamenta di come tutto sia fuori posto.

In ogni film di Fellini, troviamo la Morale, colui che rappresenta ciò che è Bene e ciò che è Male, secondo canoni personali, a volte ipocriti, a volte accettabili, altri no. In questo caso, il Prefetto incarnerebbe la Legge e quindi tutto ciò che è permesso (il Bene) in contrapposizione a tutto ciò che non deve essere esercitato (il Male).

I due si siedono su una fredda panchina di marmo ed Ivo racconta che Aldina, la sua amata, lo ha minacciato di farlo arrestare; il Prefetto gli risponde che, se ciò fosse avvenuto fino a poco tempo fa, si sarebbe adoperato, perché sospendesse la denuncia d’arresto. Il medico di Gonnella, accompagnato dal figlio (Patrizio Roversi) del Prefetto, gioisce, perché, dopo tanto girovagare, lo ha finalmente trovato. Ciò non disturba l’Autorità, che rimprovera la coppia di disturbarlo, essendo egli impegnato con un uomo, ennesima vittima di un’ingiustizia, sicché i due abbandonano l’anziano paziente – padre, lasciandolo ai suoi strampalati discorsi sulla morale. Gonnella prova a convincere Ivo che il medico, in verità, non sia un medico, così come il figlio, tutt’al più incarnerebbe un’idea platonica, un archetipo del figlio. In fondo, tutti sembrano ciò che realmente non sono; è il gioco della «maschera», che ognuno di noi è costretto ad indossare nella quotidianità, al fine di recitare un ruolo in questo mondo tanto assurdo e quindi tanto falso oppure un mondo che dell’assurdità e della falsità non ha testimone, poiché, per essere mondo, così è.

Una banda intona, sul palco della piazza, una simpatica marcetta, mentre Gonnella ed Ivo si confondono tra le persone con occhi indagatori e passi tranquilli. Lontano delle ciminiere vomitano fumo nerissimo e denso, mentre su un prato i sette amici, che abbiamo incontrato all’inizio dl film, scorrono lentamente, introducendosi nella piazza del paese, accolti da applausi scroscianti.

La «passerella» è un altro simbolo importante del cinema del Maestro; quella celebre di «8 e ½ », oppure la passerella dei bagnanti in «Amarcord»: un caleidoscopio di facce e personaggi davvero esilaranti e particolari.

Tutto è pronto per la «Gnoccata», la festa autoctona celebrata da più di 100 anni. Il sindaco assicura, ad un improvvisato giornalista, che la tradizione è stata anche quest’anno rispettata.

Ecco la tradizione. Fellini spesso c’induce a riflettere sulle tradizioni del nostro Paese, sulle tracce delle nostre radici e sulla circolarità del tempo (ἐνιαυτός), che le tradizioni paesane innestano, dal momento che sono celebrate nello stesso periodo dell’anno. Oggi più che mai, il suo messaggio – profetico – risulta attuale, poiché vi è una parte sempre più avversa ed intransigente, che mira a cancellare ogni traccia identitaria, per smarrire il senso della vita nell’uomo contemporaneo.

La «passerella» continua con l’arrivo delle miss, iscritte al concorso di «Miss Farina», tra cui figura l’Aldina, accolte da grida di entusiasmo soprattutto del pubblico maschile. Ivo è colto da un sussulto, per cui cerca anche di rompere il cordone formato dalle braccia delle guardie municipali, immediatamente respinto e così l’Aldina inesorabilmente si allontana, invitata, come tutte le altre concorrenti, ad attendere l’ora della sfilata all’interno di un vecchio pullman. Ivo riesce ad avvicinarsi alle miss, che lentamente salgono, chiedendo dove si trovi l’Aldina, non ricevendo risposte esaustive, in un tripudio di mani agitate in alto e sorrisi stampati sul volto dei tanti, che circondano il pullman.  Due troni, intanto, sono portati sul palco, sotto il quale si nasconde Ivo, invitando Rossella, che lo ha sorpreso, a mantenere il silenzio. Intanto quel piccolo ingresso, è chiuso e così Ivo rimane intrappolato in quello strano labirinto.

Potremmo, ancora una volta, interpretare il palco come il conscio ed il sottopalco quale l’inconscio, dove si moverebbero (come il povero Ivo, che gira come una trottola alla vana ricerca di un pertugio, da cui trovare libera la via) le nostre passioni segrete, i nostri desideri proibiti e di cui l’uomo spesso non è perfettamente consapevole.

Un giornalista annuncia trionfante a parte delle persone, raccolte ai tavoli all’aperto di un bar che presto la città si doterà di una nuova tv commerciale. Dei cuochi sono pronti a cuocere gli gnocchi, che riversano in enormi pentoloni; da una parte, solitario come la sua anima, il prefetto Gonnella è avvicinato da una signora, che gli reca un piatto di gnocchi, su cui si avventa l’affamato protagonista pur disprezzandone la cottura.

Eppure quante sfumature nelle voci di Roberto Benigni e Paolo Villaggio, quante caratterizzazioni ed articolazioni nelle sillabe; un profondo studio di recitazione consegna un’interpretazione davvero insolita ai deuteragonisti, cui si sente la «dolce mano» del mago riminese, capace di suscitare corde davvero mai suonate.

I due, «leggeri come un’ombra» si avviano verso un casolare abbandonato e piuttosto sinistro, dal cui interno arrivano dei bagliori, e, prima di entrare, un abbraccio d’incoraggiamento unisce i due amici.

Magicamente, qualcosa si muove nello scheletro dell’enorme edificio, che ospita un «rave party», dove una folla incredibile di giovani balla scatenata al ritmo di ritmi tribali.

Ecco il nemico di Gonnella, che rappresenta la Morale: l’espressione di certa modernità, che rovescerebbe gli antichi canoni. Una volta, infatti, si danzava sopra melodie, che accarezzavano il cuore; oggi invece si danza su ritmi assordanti, che punto s’interesserebbero di costruire trame melodiche.

Il disc jockey indossa un curioso abito templare e spinge al divertimento più sfrenato, all’abbandono dell’istinto la gran massa di giovani riunita (ricorda questo frammento la scena de «La città delle donne», in cui Marcello Mastroianni, nell’inseguire la bella signora del treno, si trova intrappolato). Tutti sembrano davvero divertirsi, mentre uno spaesato Ivo si aggira tra le danze frenetiche tranquillo nel suo passeggiare, fin quando interroga una ragazza, seduta a terra ed intenta a fumare, a svelargli il «segreto» ad ogni uomo ignoto.

L’insondabile, imprevedibile mondo lunare e femminile, il regno dell’intuizione, che sembrerebbe sfuggire a qualsiasi controllo della ragione.

Purtroppo, non è ancora giunto il momento e, nonostante il blando corteggiamento, la fumatrice continua a non aprire bocca. Allora, Ivo si rivolge ad un’altra, la quale non risponde anch’ella; ed egli continua a perdersi nei tanti volti e sguardi di donna, affascinato, conquistato, felice di essere tra loro. Fin quando, una ragazza chiede ad Ivo cosa nasconda all’interno della giacca: una scarpa donna d’argento di proprietà dell’Aldina, che durante un sogno, la tirò addosso all’improvvido amante. Ed evocando il mito di Cenerentola, la induce ad indossare la scarpa, che si fascia davvero bene al piede della signorina, la quale riceve delle occhiatacce, chiaramente d’invidia, da alcune amiche, sicché Ivo, per curiosità, sfila la scarpa, per provarla sull’invidiosa amica; incredibile! Anche il piede dell’amica si accompagna bene alla scarpa color della luna. Il gioco continua, coinvolgendo altre ragazze e ad ognuna la scarpa calza perfettamente.

Ogni donna, quindi, è come Cenerentola; pronta a diventar principessa per il proprio uomo. Un messaggio simbolico di grande poesia nel frastuono di una musica assordante ci rammenta che riusciremo, affidandoci all’intuizione, a capire, a svolgere, a chiarire il significato profondo, che lega un uomo alla propria donna.

Ivo scopre da solo il segreto: «Voi, donne, siete tante ma una sola! Siete tutte l’Aldina, tutte!». Il Prefetto gira, anche lui, spaesato, fin quando si dirige verso il disc jockey ed, impossessandosi di un microfono grida: «Chi siete? […] Barbari! Distruttori». Interviene qualcuno addetto alla sicurezza, che tenta, riuscendoci, di strappare dalle mani di Gonnella il microfono, mentre è trascinato a forza fuori dalla stanza dei dischi. Ancora tra la folla danzante, il Prefetto si lascia andare ad immalinconiti ricordi, quando ci si emozionava al suono di un violino:

«Il ballo è un ricamo, è un volo, è come intravedere l’armonia delle stelle, è una dichiarazione d’amore. Il ballo è un inno alla vita».

Dopo questa dichiarazione, magicamente si apre la visione del sogno, tanta cara a Federico Fellini. La musica cessa, i ragazzi smettono di ballare, ponendosi a cerchio, al cui centro una donna nobilmente vestita

I due si guardano, sorridono, quindi Gonnella tende la mano, mentre inizia la dolcezza de «An der schönen blauen Donau» (Sul bel Danubio blu). I due volteggiano leggeri, come su una nuvola, staccati dalle barbarie del tempo, proiettati verso il passato, che non esiste e quindi verso una dimensione dello spirito, che annulla il concetto di tempo. E’ il momento – a nostro avviso – più struggente del film.

L’esibizione raccoglie l’applauso convinto e l’abbraccio della platea giovanile, che riprende a danzare: la magia è scomparsa. Ormai la festa volge al termine e così gruppi di giovani abbandonano le danze e rincasano. Si crea ora un cacofonico concerto di motori messi in moto e moto smarmittate.

Ivo ha trovato posto all’interno di un’utilitaria in compagnia di altre ragazze, poi, grazie all’intervento della sorella, Adele, abbandona l’abitacolo tra il dispiacere delle amiche. Nel viaggio di ritorno a casa, Ivo confessa alla sorella che avrebbe dei progetti da realizzare, mentre si appoggia delicatamente sulla spalla di Adele e chiude gli occhi.

Due bambine sono incollate al televisore e Ivo mangia in compagnia della sorella e del marito; la finestra della camera da pranzo è completamente aperta e si vede il lento sfilare di viandanti, che si complimentano con Ivo per il suo ritorno. Si prepara, per coricarsi e nella stanza ritrova i suoi oggetti, la sua memoria, il suo passato: un bel ritratto di Giacomo Leopardi, il poeta della luna, il burattino di Pinocchio, che sorte un sorriso infantile. Rimasto solo, Ivo si guarda attorno, sedendosi ad una sedia e volgendo il braccio sulla spalliera, quando, d’improvviso, sente il desiderio di aprire la porta di una stanza disadorna, dove trova incredibilmente Nestore, appoggiato ad un muro, il quale comunica al vecchio amico che finalmente hanno catturato la luna! Su una strada di campagna, sfila una processione di ciclisti, mentre una vecchia locomotiva trasporta delle persone, il traffico caotico di automobili e pullman. Anche la tv commerciali ha inviato dei collaboratori, perché riprendano l’incredibile cattura. Sulla piazza principale, al di là di un tavolo coperto da una lunga tovaglia verde, siedono le autorità religiose e civili; la chiesa è illuminata a giorno. Finalmente, un giornalista annuncia, da un grande schermo, collocato alle spalle del tavolo che tre concittadini sono stati gli autori della celebre impresa. Gonnella gira indispettito e sospettoso, come sempre. I tre eroi sono intervistati e dichiarano la loro preoccupazione per l’atto compiuto, perché «da lassù qualcuno che ci guarda ci vuole. E non possiamo stare senza di lei». Confessano che l’impresa sia riuscita grazie alla buona collaborazione della luna, che si sarebbe lasciata catturare e trasportare nella Cascina Migliorini. L’azione getta nello sconforto tutti coloro che si precipitano alla prigione: «molti piangono, altri pregano, chiedendo misericordia e perdono. Intercessione di grazie». Seguono alcuni commenti da parte delle autorità vuoti di parole, mentre il monsignore rivela che «la luna nulla ha da svelare. Per noi, tutto è stato svelato».

Essendo, secondo certe interpretazioni, Cristo rapportato al Sole, è chiaro che la luna non rivesta alcuna importanza nel piano divino.

Dalla piazza, si alza una domanda davvero intelligente: «Che cosa sono venuto a fare in questo mondo?» l’eterno dilemma: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo.

«Come mai nessuno ci viene a spiegare cosa vuole da noi?»; quindi un’invettiva contro l’autorità religiosa:

«E’ tutto stato rivelato? Dove? Come? A chi?». Nessuno osa rispondere. La luna imprigionata, intanto, ascolta le chiacchiere, quando una donna anziana s’inginocchia chiedendo la grazia, immediatamente rimossa dalle forze dell’ordine. Dalla piazza, qualcuno, impugnata la pistola, spara alla luna tra grida di paura e di rimprovero; ancora dei colpi, che disperdono le persone raccolte, poi, grazie all’intervento di alcuni poliziotti, il temerario omicida della luna è catturato sotto lo sguardo impietoso della camera da presa. Le autorità abbandonano la piazza; nel caos generale, Gonnella s’introduce nell’automobile del Ministro, il quale è invitato ad accomodarsi dalla guardia del corpo, che solo ora si accorge dell’intruso, trascinandolo a forza fuori dall’abitacolo. La piazza è in preda al caos più totale, cui è risparmiato il solo Gonnella, dimentico di tutto ciò che gli accade intorno.

Ivo assiste al ballo sconclusionato di Rossella col suo nuovo fidanzato, in una piazza completamente vuota.

La luna è nuovamente al suo posto, nel cielo e sorride rumorosamente all’indirizzo dell’intristito Ivo, per la faccia buffa, che le mostra.

Irrompe ancora una volta il sogno: Ivo ricorda come anche la nonna sorridesse nel guardarlo in volto.

«E ora che mi vuoi dire delle voci? Delle corse da un pozzo all’altro? E non sei contento? Ma è un gran regalo; una fortuna. Dimenticavo la cosa più importante: pubblicità!»

Ivo s’interroga cosa vogliano significare le parole, rivoltegli dalla Signora. La luna allora gli risponde che, se capisse, poi non potrebbe fare nulla; il suo ruolo è ascoltare, sentire, augurandosi che mai si stancheranno di chiamarlo.

Le nostre voci interiori, che parlano, c’interrogano, ci suggeriscono altre strade mai percorse, avvolgendo così di mistero la nostra esistenza.

«Eppure, io credo che, se ci fosse un po’ più di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire».

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La voce della luna

Con: Roberto Benigni (Ivo Salvini), Paolo Villaggio (il prefetto Gonnella), Nadia Ottaviani (Aldina Ferruzzi), Marisa Tomasi (Marisa la vaporiera), Angelo Orlando (Nestore), Sim (suonatore di oboe), Syusy Blady (Susy) Vito (Vito Micheluzzi)

REGIA: Federico Fellini

SOGGETTO: Federico Fellini

SCENEGGIATURA: Federico Fellini, Ermanno Cavazzoni, Tullio Pinelli

FOTOGRAFIA: Tonino Delli Colli

MONTAGGIO: Nino Baragli

MUSICA: Nicola Piovani

SCENOGRAFIA: Dante Ferretti, Francesca Lo Schiavo

COSTUMI: Maurizio Millenotti

PRODOTTO: Mario e Vittorio Cecchi Gori

DAVID DI DONATELLO 1990

MIGLIOR ATTOR PROTAGONISTA: Paolo Villaggio

MIGLIOR SCENOGRAFIA: Dante Ferretti

MIGLIOR MONTAGGIO: Nino Baragli

CIAK D’ORO 1990

MIGLIOR FOTOGRAFIA: Tonino Delli Colli

NASTRO D’ARGENTO 1991

MIGLIOR COLONNA SONORA: Nicola Piovani

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