La prima de “I cavalieri di Ekebù” di Riccardo Zandonai diretta da Arturo Toscanini

Il 7 marzo 1925, andò in scena, presso il Teatro alla Scala di Milano I cavalieri di Ekebù, di Riccardo Zandonai su libretto di Arturo Rossato, diretti dal Maestro Arturo Toscanini.

Il compositore dimostrò con la scelta di soggetti sempre diversi il valore della sua fantasia, capace di non cristallizzarsi in un unico e ben determinato ambiente espressivo, ma, grazie all’agile temperamento, capace di affrontare un argomento diverso dall’altro, senza offuscare o attenuare il motivo dell’ispirazione. Egli fu fedele all’insegnamento verdiano, che seppe porre sotto le ali del suo genio, tanti paesaggi diversi, eternizzandoli musicalmente.

Zandonai riuscì a creare linee melodiche, sciolte, fuse in un determinato palpito e con un appropriato colore, al fine di delineare, descrivere l’illusione di un ambiente, con caratteristiche così diverse da quelle a cui si è generalmente avvezzi.

Arturo Rossato trasse il libretto da La saga di Gösta Berling, che procurò l’assegnazione del Premio Nobel del 1909 alla scrittrice svedese Selma Lagerlöf, che disegnò con la suggestione di elementi coloristici e con taluni tratti caratteristici la natura dei principali protagonisti del dramma, soggetto non facile per il Compositore, a causa dell’associazione tra elemento fantastico ed umano.

L’opera è composta di cinque quadri, in cui i personaggi parlano un linguaggio, cui lo Zandonai ha conferito tutti i melismi della sua anima: accenti e palpiti di voci ritraenti una sensibilità, un tono, una forma propri dell’operista: dal comico, al tragico, dal passionale, allo spensierato, in cui la musica si adagia con sensibile ricamo.

I cavalieri di Ekebù mostrano tre aspetti ben definiti: l’aspetto ambientale, quello lirico e poi quello caricaturale.

L’atmosfera è ben disegnata dai movimenti strumentali, nella realizzazione sonora d’un paesaggio, quale la fantasia dell’autore trasse dalla fresca e vivida ispirazione.

Nel primo quadro, è l’ora del crepuscolo profondo, sui campi desolati cade la neve ed, un poco alla volta, il cielo sembra rassenerarsi alla comparsa delle stelle. Il magnifico castello di Ekebù in alto ed una squallida casetta; nulla più. La musica evoca la cupa tragedia, a cui soggiace lo spirito di Giosta Berling, con ritmi eguali di bassi intrecciati ad accenti disuguali dell’oboe. Un coro di fanciulle rischiara tanta malinconia, quindi un tocco di campane si ode e sparisce spegnendosi. In questo clima, si agitano, cantano, esultano, si abbattono le persone del dramma. Un’espressione lirica si manifesta nell’anima dei due amanti – Anna e Giosta -, sulla tramma di un linguaggio altamente suggestivo. Irrompono i Cavalieri e Cristiano con l’inno Vecchia terra di Ekebù e lo spirito musicale si carica di tensioni sentimentali, mentre il grigiore della scena scompare, perché trionfi una frase melodica, sonora e vitale, squillante ed ebbra di vita. E così l’atto primo si compie con la festosità ridanciana, cui il compositore ha prodigato tutte le risorse della sua immaginazione ed arte, che ritornerà amplificata nel secondo atto, in cui le singole parti del coro e dei Cavalieri s’intrecciano e si chiudono in una linea armoniosa, piena di brio, sorretta da sapienza tecnica propria del Compositore.

La scena di presentazione dei Cavalieri vive di una vivace comicità, sottolineata da una rappresentazione musicale per soggetto. Assai originale poi la trovata, nella scena del teatrino, dove un’orchestrina suona e stona! La scena d’amore si svolge sulla piccola ribalta in un ritmo di semicrome e con delle dissonanze, che producono cacofonie assai curiose, imprimendo alla scena un effetto grottesco, su cui il violino si produce in arabeschi melodici e virtuosismi di natura tziganesca.

Nel terzo atto, il primo quadro si svolge in un’atmosfera malinconica: pennellate grigie, suoni rievocanti il Natale, accordi concepiti per suscitare nostalgia accorata. L’estro descrittivo dello Zandonai si ridesta e torna sul paesaggio squallido d’inizio, che nel secondo quadro si riflette sulla fredda terra. I bassi mormorano monotonamente ed il fischio cromatico del vento sembra anticipatori di guai. Mentre sta per sorgere l’alba, l’orchestra avvicenda i motivi dell’amore con tocchi dolci, teneri ed agili di melodia dolente.

Nell’ultimo atto, il dramma delle passioni cede il passo al dramma delle moltitudini, in una vocalità più conclusiva e sintetica, in cui le voci risuonano con un fragore impetuoso, che si attenuerà quando la Comandante, morente, rivolge l’estremo saluto ai Cavalieri, sul cui inno, di meravigliosa potenza e di suggestione immediata, riprende il tumulto.

Riccardo Zandonai ha rivelato ne I cavalieri di Ekebù la completa maturità, nell’equilibrio, nella composta proporzione armonica, dove la forza inventiva si è espressa nella convinzione tecnica e nell’orchestrazione, che ha rivelato la personale impronta del compositore. Il pubblico della Scala ha accolto il lavoro senza alcun dissenso; Arturo Toscanini apparve alla ribalta alla fine di ogni atto accanto allo Zandonai. Le chiamate registrate furono: cinque al primo atto; sei al secondo; quattro dopo il primo quadro del terzo atto e cinque chiamate dopo il secondo quadro. Alla fine dell’opera il compositore apparve da solo per sei volte. Anche il librettista, Arturo Rossato, si presentò con Toscanini e lo Zandonai, accolti da un’ultima ovazione. Il Maestro, come al solito, condusse l’orchestra con fervore appassionato, con zelo fraterno ed instancabile; sotto la sua guida animatrice i cantanti furono all’altezza della mirabile esecuzione. Lodevole il coro istruito dal Maestro Veneziani, mentre Giovacchino Forzano ha creato una messa in scena duttile e vivace, manifestandosi quale artista sensibile.

Lascia un commento

search previous next tag category expand menu location phone mail time cart zoom edit close