Brevi cenni sul Palazzo del Te di Mantova

Il 29 marzo 1519 morì a Mantova il marchese Francesco II Gonzaga e gli successe il figlio, Federico II, non ancora ventenne, cresciuto in un ambiente di grandezze militari, letterarie ed artistiche, grazie all’influenza della mamma, la colta Isabella d’Este, la duchessa di Urbino, Isabella Della Rovere, e la di lei sorella, Eleonora. Il neo duca avrebbe avuto come consigliere Baldassarre Castiglione, avrebbe atteso ai lavori del Mantegna e aiutato dalla collaborazione dell’umanista Mario Equicola; ben presto sarebbe entrato nelle simpatie di Carlo V grazie alla nomina quale Capitano generale delle armi della Chiesa. Trascorreva il tempo, dilettandosi nella lettura di Omero e di Virgilio ed era allietato della compagnia della bella Isabella Boschetti.

Nel settembre 1524, grazie all’arrivo in Corte di Giulio Pippi detto Romano, già allievo di Raffaello, poté mettere in atto un suo progetto: un’opera d’arte titolo del suo nome immortale, simboleggiato da emblemi, concetti, sentimenti ed aspirazioni.

Il sontuoso palazzo sarebbe sorto nelle vicinanze della città, nella spianata del Tejeto fuori di Porta Pusterla, per solennizzare le attività dello Stato, per gli avvenimenti di famiglia e per gl’intimi ritrovi. Immediatamente furono impiegati migliaia di persone, per ovviare alle imperfezioni del terreno; Giulio Romano fu nominato sopraintendente generale dell’erigendo palazzo, concedendosi quale architetto, pittore e decoratore e già nel 1527 risultò visibile e compiuta l’ossatura: un magnifico edificio di forma quadrata d’ordine dorico, con quattro porte e quattro atri nel mezzo di ciascun lato ed un cortile d’onore. Dalla denominazione Tejeto, fu chiamato Palazzo Te, opera che avrebbe accolto circa un centinaio di artisti, tra cui il Primaticcio, Benedetto Pagni, Rinaldo e Camillo Mantovani, guidati dal Romano.

Il palazzo avrebbe rappresentato l’apoteosi del felice e vanaglorioso Gonzaga, il quale prediligeva nella passione per i cavalli, credeva nell’influenza degli astri, emulava con entusiasmo i grandi condottieri del passato, considerandosi il più potente dei Principi. Le sue passioni furono mirabilmente assecondate dalla felice intuizione del Romano nelle Sale dei Cavalli, del Trionfo, dei Segni, di Cesare, dei Giganti, di Fetonte e di Psiche.

La Sala dei cavalli è un’aula assai vasta e di forma rettangolare, che avrebbe funto da anticamera ai suntuosi appartamenti, addobbato con un camino colossale in marmo; sulle pareti campeggiano dipinti sei Cavalli, ritratti dalla scuderia del Principe, cui conosceva la provenienza, la paternità, le imprese. Il lacunare è di legno intagliato e messo ad oro e nei riquadri troviamo la rappresentazione del monte Olimpo colla parola Fides, una delle imprese più care ai Gonzaga. L’amore per la bella Isabella è rappresentato dalla figura dell’incombustibile salamandra (che simboleggia l’Elemento Fuoco) col motto: Quod huic deest me torquet (ciò che manca a costei tormenta me), mentre il principe ardeva continuamente d’amore.

La Sala del Trionfo rende omaggio a Carlo V e quindi all’Impero, cui i Gonzaga avevano legato la propria sorte; in un doppio ordine di bassorilievi è rappresentato il trionfo dell’imperatore Sigismondo di Lussemburgo, che entrò il 22 settembre 1433 in Mantova, per innalzare alla dignità del marchesato il capitano del popolo Gianfrancesco Gonzaga, sperando di richiamare l’attenzione di Carlo V per un ulteriore proprio innalzamento a più eccelsa dignità. Avvenne che nella Dieta di Bologna, l’imperatore avrebbe innalzato Federico II al grado di Duca. Gli stucchi sono opera del Primaticcio su disegno del Romano, che rivestì i soldati tedeschi d’abiti romani.

La Sala di Cesare raccoglie le grandi immagini di Alessandro, Scipione e Cesare, eroi del neo Duca. Una grande medaglia è dipinta nel mezzo della volta, rappresentante Cesare atto al comando dei Littori, perché brucino i documenti dello sconfitto Pompeo. Scipione, vincitore nelle Spagne, che restituisce la sposa allo sconfitto, è immortalato nel medaglione posto sopra la porta; nell’altro, Alessandro che scopre i poemi di Omero. Quindi il trionfo della passione di Federico II per i letterati e gli artisti, tra cui l’Ariosto, il Bembo, l’Aretino, il Tiziano, il Sansovino, il Correggio, che chiamava da tutta Italia, la mitezza e la generosità nel perdono sono simbolicamente rappresentati nei tre esempi dei condottieri.

Alla sua donna, Isabella, di cui il Romano subiva il fascino, avrebbe dedicato la sala di Psiche, ispirata alle collezioni ideate da Aldo e Paolo Manuzio, che raccontavano delle vicissitudine, sofferte dalla bella per Eros, le sue traversie ed infine il fausto connubio, plaudito dagli Dei e dalle divinità inferiori. Negli otto ottagoni della volta e nelle dodici lunette sopra il fregio, è narrata la storia, così come raccontata da Apuleio nell’Asino d’oro. Nel grande medaglione centrale, esultano le nozze degl’innamorati e nei quattro semi – ottagoni, che lo circondano, le varie divinità festeggianti. In un parete, Psiche e Cupido sono ritratti sopra un letto, incoronati di fiori, mentre le Ninfe presentano l’acqua lustrale; su un’altra parete il banchetto di nozze, a cui servono Ninfe e Napee, mentre i Satiri porgono le vivande, le Grazie spargono dei fiori e Mercurio porta gli auguri degli Dei. Nella parete posta verso la città, sono raffigurati tre gruppi: Venere e Marte nel bagno, Venere ed Adone che si divertono, sorpresi da Marte; infine Bacco ed Arianna, a cui un Satiro porge una coppa liquorosa. La parete posta verso il giardino presenta Polifemo appoggiato sulla clava, guardato con timore da lontano da Aci e Galatea, amoreggianti sulla riva del mare; Giove, trasformato in drago, vicino ad Olimpia, mentre l’aquila colpisce in un occhio lo spione Filippo; Pasifae mentre entra nella giovenca costruita da Dedalo.

Nell’esaltazione erotica del tratto, Giulio Romano si mostrò assai valente anche nella descrizione degli scorci, delle sfumature e nel plasmare le figure, seppur in un felice allontanamento dagl’insegnamenti del Raffaello, che aveva consegnato splendidi volti di donne pudiche, gentili, affatto sensuali o talvolta lascive come nel disegno di Giulio. Nella creazione di Psiche – Isabella Boschetti, ritroviamo la scelta del Romano di dedicarle ampia sensualità, in un’onda incontrastata di forte voluttuosità, di cui si sarebbe beata anche la matura Isabella D’Este, come le sue ospiti, attente alla letture di Matteo Bandello.

Ogni intrigo amoroso della società mantovana aveva trovato finalmente il suo felice dominio; qui si celebravano augusti banchetti del Gonzaga, cui idealmente partecipavano anche gli Dei ritratti. Federico II mostrò tutto il suo entusiasmo per la perfetta riuscita, in particolare, di questa Sala, dove avrebbe poi ordinato di porre la seguente iscrizione:

Federicus Gonzaga II Mar. V. S. R. E. et Reip: Flor. Capitaneus Generalis honesto ocio post latore ad reparandam virt quieti construi mandavit

(Federico II Gonzaga, quinto marchese, Capitano Generale della Santa Romana Chiesa e della Repubblica Fiorentina, per il suo onesto ozio dopo le fatiche, fece costruire allo scopo di ristorare le energie per la vita di pace).

Dopo la Sala di Psiche, il Salottino fu arredato secondo la scienza astrologica, seguita da Federico II: nella volta sono rappresentate le dodici costellazioni e sotto ad esse in 16 medaglie, i divertimenti e le occupazioni dei singoli mesi dell’anno.

Nel 1530, Federico II fu proclamato Duca e, nell’anno successivo, contrasse   matrimonio con Margherita Paleologa, che avrebbe recato in dote il Monferrato, la più bella provincia della Valle padana. In occasione del fausto evento, Carlo V sparse onori e favori alla neo coppia, mentre Papa Clemente VII De Medici chiese in Mantova la convocazione di un Concilio ecumenico. Coll’assunzione delle due massime potenze, Federico giunse al suo massimo splendore, suscitando l’invidia e la gelosia dei principi confinanti, di cui non avrebbe nutrito affatto paura, rammentando quanto prospettato dal Romano nella Sala dei Giganti, in cui Giove, abbandonato il trono, scaglia dei fulmini, secondato dalla moglie, Giunone e dal figlio Ercole, mentre Bacco e Vulcano incoraggiano le dee protese nell’immane battaglia. Apollo lancia la cetra; le Ore perdono il controllo dei cavalli; Pan stringe una Ninfa spaventata al suo seno; Nettuno si puntella sul tridente, per non cadere; Diana sviene sul cocchio, tirato dai cavalli; le Naiadi rovesciano dei vasi; Giano, Saturno e Vesta sorpresi restano immobili; Marte e Venere sperano nella vittoria di Giove. Ai quattro angoli, i Venti soffiano nella lotta, che si sta svolgendo, mentre nelle quattro pareti si stagliano i Giganti, che arrivano fino al cielo, fulminati da Giove e quindi oppressi dalle rupi, che li ricoprono, nello spezzarsi degli edifici, nella distruzione dei templi. I Giganti sono duri alla resa, anche se colpiti dalle folgori, finché declinano definitivamente sotto l’urto delle montagne, che avevano osato precedentemente smuovere. Giove, che tiene testa contro i nemici, ha i lineamenti di Federico II.

Questo grandioso dipinto, che non ha né principio, né fine, poiché il cielo è congiunto alla terra, unisce gli dei agli uomini in un’eufonia di grande terrore. La rappresentazione dei caratteri, le figure, il colore, la tonalità generale sono esagerate, al fine di forzare il segno, esplorare la linea di confine dell’arte: eccedette il Principe, eccedette l’Artista, prede della passione.

Nel Salotto di Fetonte, è descritto un tentativo non riuscito di esaltazione della propria forza, simbolicamente, contro il potere di Federico II, il quale, novello Giove, avrebbe disfatto. Quindi, chiunque avesse aspirato a sostituire il Marchese nelle grazie di Carlo V, sarebbe stato sconfitto come Fetonte, pianto dalle sorelle Eliadi, trasformate in pioppo e stabilite sulla riva del Po. Lo sfortunato tentativo di Fetonte è dipinto nella medaglia posta nel mezzo della volta, mentre il salotto è ornato di bassorilievi, di stucchi, di quadretti molto belli, opera del Romano e del Primaticcio.

Gli altri salottini, che non presentando particolari dipinti, sono arredati con stucchi, intagli, dorature perfettamente eseguiti.

Il cortile d’onore è congiunto ai giardini attraverso l’atrio, esposto alla vista del pubblico, che presenta la storia di David, re guerriero, artista e poeta, galante ed innamorato. Negli ottagoni della volta e nelle quattro lunette sottoposte, il Re uccide Golia, quindi soffoca il leone, lotta coll’orso, suona l’arpa per mandare inni di lode a Dio; la moglie, Betasabea, ornata dalle damigelle, è adocchiata dal re.

Ai bellissimi giardini, si accede per mezzo dell’atrio di Davide; sono composti da due peschiere esterne e, durante i festeggiamenti, si avviavano delle finte neumachie (combattimento navale); al centro viali e meandri suddivisi in reparti, nel cui centro una fontana, che rovescia l’acqua in una conca marmorea. All’inizio di ogni viale, troviamo diverse statue: Cerere, Flora, Pomona, Pale, Silvano quali custodi del luogo.

Alla destra del giardino, un lungo fabbricato, in cui si sarebbero conservati i fiori e gli agrumi dall’intemperie invernali; a sinistra, un tempietto per i lavacri estivi, che si compone di vari salottini, di un piccolo giardino e di una grotta, dove sono la vasca da bagno e i camerini di servizio, di una loggetta con dei dipinti della vita dell’uomo: dalla nascita alla morte coll’anima, che sale in cielo.

La realizzazione ideale del Principe e per l’Artista fu compiuta nel 1537 colla costruzione di due magnifici viali comunicanti con Porta Cerese e Porta Pusterla. Purtroppo la salute del Principe destava segnali inquietanti di malessere, che lo avrebbero portato alla morte il 28 giugno 1540, lasciando la successione al figlio Francesco III di appena 7 anni, sotto la tutela della madre Margherita e dello zio cardinale, Ercole.

Giulio Romano si ritenne quindi libero di rivolgersi altrove e, così, negli ultimi sei anni di vita si sarebbe dedicato a ricostruire la Basilica di S. Benedetto Polirone in Mantova e presentare i disegni per la costruenda cattedrale.

Il Palazzo del Te fu ravvivato alle antiche usanze dionisiache nel 1549, quando il principe Francesco III Gonzaga, divenuto nel frattempo maggiorenne, sposò Caterina d’Austria, figlia di Ferdinando I d’Asburgo. Purtroppo il destino sembrò accanirsi sulla giovine vita del principe, quando, nel febbraio 1550, durante una gita  sul lago, cadde in acqua ed, a causa delle rigide temperature, morì in pochi giorni. La vedova fu costretta ad abbandonare la reggia mantovana per mancanza di prole, ritornando alla casa paterna, rimaritandosi, qualche anno dopo, con Sigismondo Re di Polonia.

Il Palazzo Te rimase quindi deserto, visitato, di tanto in tanto, da principi e principesse transitanti per Mantova, poiché il neo principe Guglielmo, secondogenito di Federico II, era di carattere assai riservato e conduceva vita assai ritirata.

Si dovrà attendere Vincenzo I Gonzaga, figlio del morigerato Guglielmo e di Eleonora d’Austria, perché il palazzo fosse rivisitato luogo di feste e divertimenti. Il 24 maggio 1608 rimase memorabile il ricevimento offerto per le nozze di Margherita di Savoia con Francesco IV di Gonzaga, nella splendida cornice di un palazzo arredato di nobilissimo mobilio.

Nel maggio 1629, Luigi XIII di Borbone detto il Giusto assediò Mantova ed il Palazzo Te accolse all’interno dei lussuosi appartamenti soldati ed anche predoni, contandone l’abbandono e la devastazione. Fortunatamente all’orribile sciagura furono risparmiati i dipinti, seppur qua e là rovinati. Solo grazie all’ultimo duca di Mantova, Ferdinando Carlo di Gonzaga Nevers, l’antico palazzo vide gli ultimi raggi festosi del suo trionfo; la moglie, Anna Isabella di Guastalla, vi organizzò dei ritrovi di poesia. La seconda moglie, Susanna Enrichetta di Lorena, fu ricevuta festosamente e fastosamente nel 1706, ultimo sfarzo prima di un lungo periodo di lutto per la città di Mantova, dichiarata dalla Dieta di Ratisbona provincia straniera, esiliato il Duca, e costretta quindi a rimpatriare in Lorena, dove sarebbe morta all’età di 24 anni.

Esaurita la stirpe dei Gonzaga, il Palazzo deperì precipitosamente, fin quando lo zelante Presidente del Maestrato, Gianfrancesco Pullicani, provvide al restauro, affidando i lavori a Doriciglio Moscatelli Battaglia, che si preoccupò d’intervenire sull’eccessive nudità dei personaggi dipinti, variando quindi il pensiero primitivo. Il 2 settembre 1728, terminarono i lavori e si organizzò una grande festa, dove intervenne Filippo d’Assia Darmstadt, governatore della città con la figlia, Teodora, maritata col Duca di Guastalla e corteo al seguito. Fu purtroppo solo una fioca luce in un antro di oscurità culturale e disinteresse per le cose dell’arte, poiché il Palazzo declinò nuovamente, fino a quando l’arciduca Ferdinando d’Asburgo Lorena, governatore del Milanese, nel 1781, affidò i nuovi restauri della facciata a Paolo Pozzo rispettoso delle volontà del Romano, gli stucchi e le decorazioni a Stanislao Sommazzi e Alessandro Vassali, gli affreschi a Giovanni Bottani, che modificò ulteriormente i tratti originali.

Passato il periodo di devastazioni napoleoniche, la seconda dominazione austriaca, nonostante diverse volontà, non intervenne e, finalmente, il Governo italiano acquistò il Palazzo, trasformandolo in un Museo Civico nel 1990.

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