아리랑, 아리랑, 아라리요… (Arirang, arirang, arariyeo)

E’ morto per complicazioni legate al Covid il geniale regista sudcoreano Kim Ki Duk.

«Il mio cinema è un dialogo fatto d’immagini, come per la pittura».

김기덕 (Kim Ki Duk) nacque a  Bonghwa in Corea del Sud. A nove anni, si trasferì a Seul, per frequentare una scuola di avviamento professionale al settore agricolo. All’età di vent’anni, si arruolò, interrompendo gli studi; l’esperienza militare avrebbe influenzato la sua personalità artistica. Alla ricerca, forse, di se stesso, trascorse circa due anni in una chiesa per non vedenti, col fine di diventare predicatore. L’amore per l’espressione artistica lo portò in Europa, a Parigi, dove si sarebbe dedicato alla pittura ed alla scrittura delle prime sceneggiature.

Nel 1992, il ritorno in patria, dove realizzò la sceneggiatura di «A painter and a criminal condemmed to death», che gli avrebbe permesso di ottenere il riconoscimento dell’Educational Institute of Screenwriting.

Dopo tre anni esordì alla regia, pur senza avendo registrato esperienza alla direzione, con «Crocodile» (1996), «Wild animals» (1997) e «Birdcage Inn»(1998), che già contengono i semi del suo cinema: il sesso, la violenza, la disperazione, condensati al fine di ottenere effetti assai sbalorditivi per un esordiente. Con «L’isola» (2000) ottiene i primi importanti riconoscimenti all’interno di festival importanti come Venezia. La sua versione poetica si basa sull’astrazione, sulla mancanza di un nucleo centrale, reagendo ad una rappresentazione cruda ed iper realista: la storia carnale tra uomo e una donna in un villaggio di pescatori, che vivono in tante casette distribuite sopra un lago.

L’anno successivo presentò «Real fiction», dalla matrice fortemente sperimentale, che non ebbe successo, dove raccontò le sue esperienze da commilitone in una terra ancora impegnata in pesanti tensioni con il Nord. La storia della Corea la raccontò in «Address Unknown» (2001) e «The Coast Guard» (2002). Ancora nel 2001, realizzò «Bad Guynel», in cui supera l’illusorietà del tempo, fondendo passato e presente, al fine di smarrire il senso della realtà nei meandri della storia.

Nel 2003, giunge al grande riconoscimento internazionale con «Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera», una favola buddista raccontata in un tempietto in mezzo ad un lago, isolato dal mondo, dove avviene l’iniziazione al mondo degli adulti di un bambino, che diventerà monaco e, quando invecchierà, si prenderà cura di un nuovo discepolo, rievocando la perfetta circolarità del tempo (ἐνιαυτός).

L’anno successivo, vinse l’Orso d’Argento a Berlino con «La Samaritana», protagonista il sesso. Nel 2004, «Ferro 3 – La casa vuota», dalla narrazione onirica, irreale, aerea, che riceve il Leone d’argento alla Mostra Internazione d’Arte Cinematografica di Venezia nel 2004.

Le ambiguità dell’amore sono scandagliate ne «L’arco» (2005) e «Time» (2006), dove con la mano dell’artista tocca tematiche scottanti come la pedofilia.

Negli anni successivi si susseguono i film «Soffio» (2007), «Dream» (2008) e «Amen» (2011).

La depressione artistica è raccontata nel film «Arirang» (2011), mentre io 2012 segna il suo ritorno a Venezia con «Pietà».  Chiude la sua carriera cinematografica con il drammatico «One on One» (2014), «Il prigioniero coreano» (2016), presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, e «Human, Space, Time and Human» (2018).

Il regista muore l’11 dicembre 2020.

Quando uscì nelle sale cinematografiche “Pietà”, che avrebbe vinto il Leone d’oro a Venezia, mi trovavo a Seul. Mi recai al cinema con degli amici coreani, che mi avrebbero tradotto i dialoghi. Rimasi sorpreso dai motivi conduttori del film: il rapporto sessuale tra il protagonista (un terribile strozzino) e una donna (la non mai conosciuta madre) rievocazione al contrario del mito di Edipo; la violenza, la vendetta, la mancanza d’empatia tra i protagonisti in una Seul bagnata, umida, lontana dallo scintillante mondo del “Gangnam style”. Un racconto teso, drammatico fino alla catastrofe finale.

Il pubblico reagì in malo modo alla proiezione; qualcuno lasciò la sala anzitempo, altri commentarono a voce alta; qualcuno mostrò segni di disapprovazione.

Un artista provocatore, controcorrente, rivoluzionario, politicamente (finalmente!) scorretto, attento lettore della realtà mossa dalla violenza dell’affermazione personale. Illustrò un mondo forse distaccato dal reale, ma pieno di tragico realismo, fatale, predestinato.

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