Breve commento a «Il passero solitario» di Giacomo Leopardi

D’in su la vetta della torre antica,

Passero solitario, alla campagna

Cantando vai finché non more il giorno,

Ed erra l’armonia per questa valle.

Primavera dintorno

Brilla nell’aria, e per li campi esulta,

Sì ch’a mirarla intenerisce il core.

Odi greggi belar, muggire armenti;

Gli altri augelli contenti, a gara insieme

Per lo libero ciel fan mille giri,

Pur festeggiando il lor tempo migliore

Tu pensoso in disparte il tutto miri;

Non compagni, non voli,

Non ti cal d’allegria, schivi gli spassi:

Canti e così trapassi

Dell’anno e di tua vita il più bel fiore.

Oimè, quanto somiglia

Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,

Della novella età dolce famiglia,

E te german di giovinezza, amore,

Sospiro acerbo de’ provetti giorni,

Non curo, io non so come; anzi da loro

Quasi fuggo lontano;

Quasi romito, e strano

Al mio loco natio,

Passo del viver mio la primavera.

Questo giorno ch’omai cede alla sera,

Festeggiar si consuma al nostro borgo.

Odi per lo sereno un suon di squilla,

Odi spesso un tonar di ferree canne,

Che rimbomba lontan di villa in villa,

Tutta vestita a festa

La gioventù del loco

Lascia le case, e per le vie si spande;

E mira ed è mirata, e in cor s’allegra.

Io solitario in questa

Rimota parte alla campagna uscendo,

Ogni diletto e gioco

Indugio in altro tempo: e intanto il guardo

Mi fere il Sol che tra lontani monti,

Dopo il giorno sereno,

Cadendo si dilegua, e par che dica

Che la beata gioventù vien meno.

Tu, solingo augellin, venuto a sera

Del viver che daranno a te le stelle,

Certo del tuo costume

Non ti dorrai; ché di natura è frutto

Ogni vostra vaghezza.

A me, se di vecchiezza

La detestata soglia

Evitar non impetro,

Quando muti questi occhi all’altrui core.

E lor fia voto il mondo, e il dì futuro

Del dì presente più noioso e tetro,

Che parrà di tal voglia?

Che di quest’anni miei? Che di me stesso?

Questa poesia fu pubblicata soltanto nell’edizione napoletana del 1835; sarebbe stata scritta nel giugno del 1829 a Recanati. In quest’idillio, il Leopardi dimostrò abilitàe nel temperare la serenità colla passione, grazie alla rappresentazione dei vaghi aspetti della natura e del proprio stato d’animo.

Giacomo soleva passeggiare ed, attraversando la porta di Monte Morello, s’immetteva su un piccolo sentiero, che sfociava nel Monte Tabor (il colle dell’«Infinito»), da dove poteva osservare il campanile della chiesa di S. Agostino, sulla cui cima spesso si posava un passero. Esso cantava malinconicamente dalla torre verso la campagna, immergendola di una melodia soave; ed il Poeta rivolge la sua parola ispirata nella contemplazione della natura.

Giacomo sentì prepotente il sentimento verso la natura, così anche la non amata campagna recanatese, gli parve ridente, tantoché al Giordani scrisse nella primavera del 1817:

«Quando io vedo la natura in questi luoghi che veramente sono ameni (unica cosa buona che abbia la mia patria), e in questi tempi spezialmente, mi sento cosi trasportare fuori di me stesso, che mi parrebbe di far peccato mortale a non curarmene, e a lasciar passare questo ardore di gioventù».

Tutti gli uccelli esultano per il risveglio della natura, che offre la primavera, mentre quel passero assiste, pensoso, al lungo svolazzar dei suoi compagni, preferendo starsene appartato. Giacomo vuol indicare se stesso in quell’innocente uccello; anch’egli assiste alla gioia, che coinvolge il popolo recanatese, riunito per la festa di S. Vito, mentre disparte, fuggendo ogni occasione di svago. E così trascorre la primavera, la giovinezza, l’età più bella, arida di divertimento e di giochi spensierati, di sogni da realizzare e progetti da pensare. Il canto solitario è l’unico ricordo dell’età più bella: la gioventù, costretto a trascorrerla in un paese, che non ama, che disprezza ed odia. Tutti festeggiano il santo patrono, mentre le campane sciolgono inni di gioia al cielo ed i colpi sparati a salve sembrano riempire di frastuono anche le stanze delle case lontane. I giovani, allora, indossano l’abito migliore, per condursi lungo le vie, al fine di essere osservati ed osservare essi stessi. Giacomo, invece, è il grande assente; egli non ha costumanza di partecipare al felice evento ed infatti, preferisce abbandonare le vie confuse dal chiasso dei viandanti e ritirarsi nell’amata disperata solitudine, rimandando le occasioni di svago a tempi diversi (ma quali tempi?). Egli denuncia così un invecchiamento anzitempo, poiché riflette assai sui divertimenti, tanto da rinunciarne. Si dirige verso Ovest, laddove sta per tramontare il sole, che per un attimo fissa negli occhi, mentre cala tra le montagne, portando con sé ogni sogno, ogni desiderio, sentimenti legati alla gioventù, che, col sole, sembrano tramontare. Purtroppo, fuggire dai piaceri, non per scelta intellettuale ma per indole e quindi sarebbe anche inutile lagnarsene. Se al Poeta non sarà concessa la grazia di morir giovane, sfuggendo all’aborrita vecchiaia, quando gli occhi, specchio di un animo irrigidito e freddo, non parleranno più al cuore degli altri, non esprimeranno più nulla, e il mondo sarà vuoto d’ogni attrattiva e il giorno futuro sembrerà apportatore di noia e di tristezza sempre maggiori, allora che cosa penserà di questo desiderio di separazione dal mondo?

Solo il rimpianto rimarrà di questa triste giovinezza:

«Sempre mi desteranno dolore quelle parole che soleva dirmi l’Olimpia Basvecchi riprendendomi del mio modo di passare i giorni della gioventù, in casa, senza vedere alcuno: che gioventù! che maniera di passare cotesti anni! Ed io concepiva internamente e perfettamente anche allora tutta la ragionevolezza di queste parole».

Il pentimento lo indurrà a ripensare al costume di quegli anni, senza divertimento, senza amore, e del dolore si ammanterà l’anima.

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