Breve commento a «La sera del dì di festa» di Giacomo Leopardi

Dolce e chiara è la notte e senza vento,

E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti

Posa la luna, e di lontan rivela

Serena ogni montagna. O donna mia,

Già tace ogni sentiero, e pei balconi

Rara traluce la notturna lampa:

Tu dormi, che t’accolse agevol sonno

Nelle tue chete stanze; e non ti morde

Cura nessuna; e già non sai né pensi

Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.

Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno

Appare in vista, a salutar m’affaccio,

E l’antica natura onnipossente,

Che mi fece all’affanno. A te la speme

Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro

Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.

Questo dì fu solenne: or da’ trastulli

Prendi riposo; e forse ti rimembra

In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti

Piacquero a te: non io, non già ch’io speri,

Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggio

Quando a viver mi resti, e qui per terra

Mi getto, e grido, e fremo. O giorni orrendi

In così verde etade! Ahi, per la via

Odo non lunge il solitario canto

Dell’artigian, che riede a tarda notte,

Dopo i sollazzi, al suo povero ostello,

E fieramente mi si stringe il core,

Al pensar come tutto al mondo passa,

E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito

Il dì festivo, ed al festivo il giorno

Volgar succede, e se ne potrà il tempo

Ogni umano accidente. Or dov’è il suono

Di que’ popoli antichi? Or dov’è il grido

De’ nostri avi famosi, e il grande impero

Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio

Che n’andò per la terra e l’oceano?

Tutto è pace e silenzio, e tutto posa

Il mondo, e più di lor non si ragiona.

Nella mia prima età, quando s’aspetta

Bramosamente il dì festivo, or poscia

Ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,

Premea le piume; ed alla tarda notte

Un canto che s’udia per li sentieri

Lontanando morire a poco a poco.

Già similmente mi stringeva il core.

La poesia fu pubblicata nel dicembre del 1825. Dovrebbe recitare il giorno della festa maggiore del protettore di Recanati: S. Vito, che cade il 15 giugno.

In una lettera, indirizzata a Pietro Giordani, scrisse il Poeta:

«Poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro e un bel raggio di luna, e sentendo un’aria tepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui voce mi pareva di udire dopo tanto tempo. E in quel momento dando uno sguardo alla mia condizione passata, alla quale era certo di ritornare subito dopo, com’è seguito, m’agghiacciai dallo spavento, non arrivando a comprendere come si possa tollerare la vita senza illusioni e affetti vivi, e senza immaginazione ed entusiasmo, delle quali cose un anno addietro si componeva tutto il mio tempo, e mi faceano così beato non ostante i miei travagli».

Una riflessione amara della caducità del tempo e quindi della vita, che si svolge spesso sotto inesauribili travagli, di cui l’anima del Poeta fu preda disperata, per risolversi in un infinito nulla.

Il Canto è diviso in tre grandi riflessioni: la descrizione dello spazio – tempo, dove si svolgerebbe il racconto; la descrizone di lei, dormiente nella sua camera da letto; la propria condizione di uomo disperato, al quale la natura ha riservato la costumanza al pianto; il grido ardente dei tempi mitici ed infine il ritorno al racconto dell’attimo.

E’ notte. Il paesaggio intero è rischiarato dalla tenue luce della luna, che illumina fiocamente i tetti delle case e penetra negli orti ben lavorati; in lontananza le montagne, appena rischiarate della luce lunare, partecipano a questa quiete silenziosa.

Anche i sentieri cittadini, che dividono le case tra loro, sono silenziosi, in assenza di passanti e di vita quotidiana; lei dorme nella sua stanza da letto, fiocamente illuminata dalla lampada notturna posta sui balconi. Così come la natura è immersa nella penombra, anche l’intimità gode della penombra della notte. Il sonno è lieve, è dolce, poiché la mente della donna è sgombra da pensieri. Ella  non si è accorta di quale ferita abbia aperto nel cuore del Poeta. Se così fosse, veglierebbe nel tormento dell’amore; ma il suo cuore non batte per Giacomo, forse neanche si è accorta della sua presenza. Il Poeta rivolge il proprio sguardo alla magnificenza del cielo ed alla natura, che fu decisamente maligna nei suoi riguardi. Essa sentenziò definitivamente che i suoi occhi si sarebbero bagnati di pianto, poiché anche la speranza di un possibile, positivo cambiamento gli sarebbe stata negata.

Durante il giorno festivo, pieno di divertimenti e d’incontri, ella incontrò gli sguardi di tanti giovani, che ora potrebbero affacciarsi nei suoi sogni. Purtroppo gli occhi, destinati al pianto del Poeta, non avrebbero mai potuto ricevere un solo sguardo d’intesa: egli non può essere parte di quei sogni. La sua più cocente preoccupazione è continuare a vivere una vita disperata, per cui grida, si arrabbia e soffre, quando nella verde età si dovrebbero nutrire i giorni di speranze e progetti.

L’attenzione allora ritorna all’incanto della notte; al canto solitario dell’artigiano, il quale, percorrendo i sentieri per rincasare, intona una melodia, che sembra perfettamente accompagnarsi all’atmosfera lunare. Dopo i divertimenti della giornata festiva, torna alla sua povera casa. Al Poeta si stringe il cuore nel pensare che il tempo cancella, distrugge tutto e di alcunché lasci memoria. Al giorno festivo, segue poi il dì lavorativo e così lo scorrere del tempo spazzerà via tutti gli avvenimenti umani: nulla resterà.

Il pensiero volge a quel tempo antico, memorabile, in cui nel mondo dominava il frastuono delle armi romane, che ovunque avevano portato il verbo di Roma. A quel frastuono, segue la pace e quel silenzio, per cui nulla è rimasto di quei tempi.

Il Leopardi ricorda, quando, in tenera età, aspettasse l’arrivo del giorno festivo, standosene a letto angosciato e sveglio, con il cuore sempre più depresso ed un canto lontano, sempre più lontano.

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