Il principio educativo secondo Antonio Gramsci

L’attenzione del filosofo si concentra sulla scuola elementare, che dovrebbe fornire agli studenti «le prime nozioni di scienze naturali e le nozioni di diritti e doveri del cittadino», per introdurli nella «societas rerum» e stabilire i diritti e doveri nella «società civile».

Le nozioni scientifiche dovrebbero sostituire le false giustificazioni, fornite dall’ambiente familiare, sulla natura e sul mondo, mentre le nozioni dei diritti e dei doveri dovrebbero introdurlo nell’assetto civile, così distante dalla concezione «individualistica e localistica». Apprendendo i primitivi insegnamenti sull’esistenza delle leggi naturali, il bambino comprende di essere di fronte a forze davvero robuste, che dovrà imparare a dominare, al fine di consegnarsi ad un ambiente sempre più confortevole ed in grado di sviluppare le sue indubbie capacità intellettuali o manualistiche. Lo studio delle leggi civili, invece, contribuirebbero a stabilire delle regole chiare, che, in futuro, potrebbero essere anche cambiate, al fine di creare condizioni sempre più agevoli alla collettività.

Gramsci pretende che il discente non svolga passivamente la sua parte, trasformandosi in un ideale «meccanico recipiente di nozioni astratte», perché solo attraverso lo sviluppo di una vera coscienza il «certo» diventerebbe «vero».

La coscienza sarebbe «il riflesso della frazione di società civile cui il fanciullo partecipa, dei rapporti sociali quali si annodano nella famiglia, nel vicinato, nel villaggio».

Egli lamenta la mancanza di «unità tra scuola e vita», tanto da determinare una frattura tra «istruzione e educazione», che l’insegnante dovrà riparare, poiché consapevole del contrasto «tra il tipo di società e di cultura che egli rappresenta e il tipo di società e di cultura rappresentato dagli allievi».

Secondo Gramsci, gli esami non avrebbero alcun senso, perché somiglierebbero ad un «giuoco d’azzardo», in quanto  l’esattezza della data sarà confermata o meno anche da un mediocre professore, mentre un giudizio, un’analisi estetica o filosofica necessiterebbe di un corpo docente assai preparato, che (quando scriveva il filosofo!) non giudicava tale.

La scuola, licenziata dalla Legge Casati del 1859, corrispondeva al clima di vita intellettuale e morale diffuso «in tutta la società italiana per antichissima tradizione»; così lo studio grammaticale della lingua latina corrispondeva effettivamente all’ideale umanistico, «impersonato da Atene e Roma». Ogni materia era insegnata, perché si formasse realmente e si sviluppasse la personalità dell’allievo «attraverso l’assorbimento e l’assimilazione di tutto il passato culturale della moderna civiltà». L’insegnamento era completamente disgiunto dall’attività professionale, che sarebbe stata svolta successivamente, perché l’allievo conoscesse realmente la civiltà – e quindi il passato – della propria nazione, presupposto «necessario della civiltà moderna, per essere se stessi e conoscere se stessi consapevolmente».

Gramsci rivela poi (con il nostro pieno e totale convincimento) dell’importanza dello studio della lingua greca e latina, accusato impropriamente di «meccanicità e di aridità». Dovendo infatti educare dei «ragazzetti», bisogna loro insegnare a contrarre « certe abitudini di diligenza, di esattezza, di compostezza anche fisica, di concentrazione psichica su determinati soggetti che non si possono acquistare senza una ripetizione meccanica di atti disciplinati e metodici». Finalmente a quarant’anni, sarebbero stato capaci «di stare a tavolino sedici ore di seguito»; e la società sarebbe stata finalmente fornita di ottimi professionisti.

A proposito della definizione di «lingue morte», il Gramsci è assai contrariato, poiché lo studente si applica su «materie morte», come la Storia, che narra di civiltà scomparse, ma ciò non implica l’abbandono o – peggio ancora – della forza educativa di certe materie, poiché «nel morto è sempre presente un più grande vivente». La lingua morta continua a vivere «continuamente negli esempi, nelle narrazioni». Quindi:

«il latino non si studia per imparare il latino; il latino […] si studia come elemento di un ideale programma scolastico, elemento che riassume e soddisfa tutta una serie di esigenze pedagogiche e psicologiche; si studia per abituare i fanciulli a studiare in un determinato modo, […] per abituarli a ragionare, ad astrarre schematicamente pur essendo capaci dall’astrazione a ricalarsi nella vita reale immediata, per vedere in ogni fatto o dato ciò che ha di generale e ciò che di particolare, il concetto e l’individuo».

Comparare il latino alla lingua parlata significa imparare a distinguere ed identificare le parole dai concetti, l’approfondimento della logica formale, i cambiamenti della lingua in riferimento al periodo storico, da Ennio (III secolo a. C.) agli autori cristiani (V secolo d. C. circa). Secondo il filosofo «l’italiano, con cui il latino è continuamente confrontato, è latino moderno» (difficile oggi spiegarlo).

Nel contempo, si studia la grammatica, che conforma un autore, contestualizzandolo e la sua evoluzione nell’apparato letterario, così si scopre che ogni parola (latina ed italiana) «è un concetto, una immagine, che assume sfumature diverse nei tempi, nelle persone, in ognuna delle due lingue comparate».

Lo studente avrebbe sviluppato, un poco alla volta, la sua formazione nell’ambito della tradizione culturale.

Secondo il filosofo, lo studio nella scuola elementare e media non dovrebbe trattenere episodi pratici, ma assolutamente formativi ed istruttivi, ricche di «nozioni concrete».

Purtroppo, coll’avvento della scuola utilitaristico – professionale, si sta verificando «un processo di progressiva degenerazione», poiché l’intervento educativo deve mirare alla soddisfazione immediata dello studente. Allora, sorge sempre più spontanea la necessità di ripensare il modello educativo primario e secondario, perché si formi realmente una persona in grado «di pensare, di studiare, di dirigere o di controllare chi dirige». La moltiplicazione delle scuole professionali invece invita a scelte di classe ben mirate, anziché fornire ad ognuno la possibilità di adempiere ad incarichi governativi al di là del censo.

Altro aspetto assai importante, che rivela il Gramsci, è la critica all’aspetto dogmatico nella scuola elementare e media, legato all’apprendimento delle nozioni concrete – realtà imprescindibile -, mentre alcuna critica nel campo religioso, necessariamente dogmatico.

Per l’insegnamento della filosofia, l’intellettuale consiglia vivamente «la filosofia descrittiva tradizionale, rafforzata da un corso di storia della filosofia e dalla lettura di un certo numero di filosofi». La filosofia descrittiva sarebbe una necessità pedagogica e didattica; le regole della logica formale «sono astrazioni dello stesso genere», che devono essere lentamente assimilate. Quindi il celebre ammonimento, rivolto soprattutto a chi non ha mai o punto studiato.

«Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare – nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza».

Insomma, tanti ragionamenti, su cui sarebbe necessario continuare a riflettere, essendo la scuola – a nostro avviso – il luogo deputato alla creazione della civiltà.

A. GRAMSCI. Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, a cura di Valentino Gerratana. Editori riuniti, Biblioteca del Pensiero moderno 1996, pg. 71 e segg.

2 pensieri riguardo “Il principio educativo secondo Antonio Gramsci

    1. Si, il pensiero di un grande intellettuale, che si scopre lncredibilmente attuale

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