Johann Wolfgang Goethe da «Il viaggio in Italia». Novembre 1776: Roma

Il 1 novembre 1776, Goethe scrisse: «soltanto quando varcai la Porta del Popolo, fui certo di trovarmi a Roma»; e più avanti: «Si; io sono finalmente arrivato in questa capitale del mondo. Se io l’avessi potuto visitare quindici anni sono, in buona compagnia, e sotto la direzione di un uomo intelligente, mi terrei propriamente felice». La città, conosciuta attraverso le stampe e le riproduzioni, era ora la realtà, che lo circondava e da cui riceveva nuove impressioni.

Palazzo del Quirinale

Per la festa dei defunti, il Goethe si recò presso la Cappella privata del Pontefice presso il Palazzo Quirinale.

«Il Papa ed i Cardinali si trovavano di già nella chiesa. Il santo padre è di aspetto bellissimo, ed imponente; i cardinali sono di varie età, e di diversa presenza. Avrei avuto un vivo desiderio di udire il capo supremo della chiesa cattolica, dischiudere l’aurea bocca, e parlare della felicità indicibile delle anime sante, in modo da rapirmi in estasi». Lo scrittore, invece, fu deluso dal tono sommesso ed i gesti parchi, con cui papa Pio VI celebrò il rito. Terminata la funzione, Goethe si trattenne, per ammirare diversi quadri e rimase assai colpito dal S. Giorgio, che atterra il drago del Pordenone.

Papa Pio VI (1716 – 1799)

Il 3 novembre scrisse della delusione provata nel partecipare alla festa di Ognissanti, che immaginava fin troppo imponente, rivelatasi una semplice funzione, senza neanche troppe maestosità.

Il 7 novembre fissò un primo bilancio della prima settimana di residenza romana, nel «girare continuamente, per acquistare della pianta di Roma nuova e di Roma antica; contemplo le rovine, gli edifici, visito ora una villa, ora un’altra; mi fermo a lungo davanti alle rarità le più notevoli; cammino su e giù, sempre cogli occhi aperti, guardando ogni cosa, imperocché soltanto a Roma è possibile prepararsi a conoscere Roma».

Lo scrittore rimase assai sorpreso nel constatare come gli stili delle varie epoche convivessero, formando l’arredo urbano:

«Sia che si stia fermo, sia che si cammini, si vedono dovunque un quadro, una vista di ogni genere, di ogni specie; palazzi e rovine, giardini e deserti, strade ampie e strade strette, casupole, stalle, archi di trionfi e colonne, e spesse volte tutte queste cose addossate cotanto le une alle altre, che si potrebbero disegnare sopra uno stesso foglio di carta».

Davvero impossibile descriverne la complessità e la varietà, «tanto […] che si resta stanchi, quasi spossati dal continuo vedere, ed ammirare».

Nelle continue gite in Roma, Goethe confessa d’imparare molto, come «si vivesse in una grande scuola […] che non si sa da qual parte cominciare. Per farlo a dovere, converrebbe stare qui vari anni, ed osservare un silenzio pitagorico».

Colpito dalla maestosità e dalla barbarie, «le quali superano ogni mia immaginazione»; colpito anche dal popolo, in cui riconosce «tuttora tracce del carattere antico».

Raffaello Sanzio (1483 – 1520)

Si lamentò di aver visitato una volta sola la Stanza della segnatura, per ammirare i capolavori di Raffaello, che «al primo aspetto non procurano soddisfazione completa; è d’uopo studiarle a lungo, osservarle attentamente, per potere apprezzare quelle opere in ogni loro parte».

Il 10 novembre, annotò che lo stile di vita adottato nella piazza romana fosse «quiete, di serenità che non conoscevo da buona pezza. Il mio costume di vedere e considerare le cose quali sono; la mia costanza nel lasciare gli occhi aperti alla luce; la totale mancanza di ogni pretesa, mi riescono utili ancora questa volta, e mi rendono pienamente felice, nella quiete della mia vita attuale. Ogni giorno un qualche oggetto nuovo, meraviglioso; ogni giorno immagini fresche, grandiose, rare, ed un complesso che si vagheggiava da lungo tempo, ma che non si riusciva mai ad immaginare.

Piramide Cestia

Oggi sono stato alla piramide di Cestio, e verso sera sul monte Palatino, dove sorgono imponenti le mura in rovina, del palazzo dei Cesari. Non è possibile, io credo, trovare vista uguale a questa. Nulla propriamente si scorge di meschino, tuttoché non manchi qua e là qualcosa, che si vorrebbe togliere, biasimare; ma queste parti, desse pure concorrono alla grandezza del complesso».

Il soggiorno nella Città eterna pare che «lo spirito si modifica, viene acquistando serietà senza cadere nell’aridità; si trova in una condizione pacata, tranquilla, la quale procura soddisfazione. Quanto meno per conto mio mi trovo non avere apprezzato mai cotanto rettamente le cose, quanto dacché mi trovo qui, e ne sono lieto, per le conseguenze che ne potrò provare, per il rimanente della mia vita».

L’11 novembre, lo scrittore si recò in visita alla ninfa Egeria, quindi al circo di Caracalla, alle catacombe sulla Via Appia ed, infine, alla tomba di Cecilia Metella, che così descriveva nell’insieme:

«Quegli uomini lavoravano per l’eternità, avevano tenuta a calcolo ogni cosa, toltane la pazzia furente dei distruttori, contro la quale nulla valeva ad opporre resistenza. […] Le rovine del grandioso acquedotto sono propriamente imponenti, ed era pure un nobile scopo quello di fornire d’acqua una popolazione, con opere di quella mole».

La sera al Colosseo:

«A fronte questo, ogni altro monumento appare meschino; la sua imponenza è tanta, che si dura fatica ad imprimersene l’aspetto nella mente, lo si ritiene unicamente in proporzioni minori, e quando si ritorna a vederlo, appare sempre più grandioso».

Il 17 novembre, annotò la visita alla chiesa di S. Andrea della Valle, per ammirare gli affreschi del Domenichino, chiosando: «Vi sarebbe di che parlarne per mesi non che per un giorno».

Il 18 Novembre, fu la volta di Villa Farnesina, ammaliato dalla storia di Psiche «della quale tenni per tanto tempo le stampe colorate nella mia stanza; quindi in S. Pietro in Montorio la trasfigurazione di Raffaello, tutte conoscenze antiche, quasi amici, coi quali si sia stato da molto tempo in corrispondenza, e che si conoscano per la prima volta, di persona».

Il 22 novembre 1786, festa di S. Cecilia, il Goethe si recò a Piazza S. Pietro, quindi alla Cappella Sistina, per visitare «il giudizio universale, ed i molteplici dipinti della volta, tutti di Michelangelo [che] eccitarono la mia ammirazione. Non facevo altro che guardare, e rimanere compreso di stupore. La franchezza del maestro, la varietà, la grandiosità del suo talento, sono superiori ad ogni espressione».

Continuò la visita alla Basilica «la quale in questa giornata cotanto stupenda, era chiara ed allegra in ogni sua parte». Poi salì sul tetto della chiesa, ammirando le bellezze di Roma, «la catena degli Appennini, il monte Sorratte, le colline vulcaniche di Tivoli, Frascati, Castelgandolfo, la pianura, e più oltre il mare. L’atmosfera era tranquillissima; non regnava, neanche a quell’altezza, ombra di vento, e nell’interno della palla di rame faceva caldo quanto nella stufa di un orto botanico». Visitò i cornicioni del tamburo da cui vide il Papa «venuto a fare la sua preghiera del pomeriggio».

Consumò un pranzo frugale «in una modesta osteria del Trastevere», quindi la visita alla basilica di S. Cecilia, di cui lascia una descrizione assai minuziosa e precisa.

«Userò poche parole per descrivere l’apparato dell’interno di quel tempio, riboccante di persone. Non si vedevano più mura, né marmi. Le colonne erano ricoperte di velluto rosso, legato a quelle con trecce di oro; i capitelli scomparivano sotto la loro copertura, parimenti di velluto ricamato in oro, ed erano ricoperti per tal guisa tutti i pilieri, tutte le cornici. Tutti gli intervalli delle pareti erano rivestiti di tele dipinte, in guisa che tutta la chiesa sembrava un mosaico. Di fronte e di fianco all’altare maggiore ardevano non meno di duecento candele, formando queste quasi una parete di luce, la quale illuminava tutta la navata del tempio. Di fronte all’altare maggiore, ed al disotto dell’organo vi erano due palchi, ricoperti questi pure di velluto, e nell’uno stavano i cantanti, nell’altro i suonatori, i quali facevano musica di continuo.

Udii colà una specie nuova e bella di musica. Nella stessa guisa che si eseguiscono concerti di violino o d’altri strumenti, si eseguivano colà concerti di voci, in modo che una voce, per esempio il soprano, si era quella predominante, la quale eseguiva gli a solo, accompagnata di quando in quando dai cori, e sempre poi come, ben si comprende dall’orchestra. L’effetto di quella musica era bellissimo».

La sera la trascorse all’opera «dove si rappresentavano i Litiganti [«Fra i due litiganti il terzo gode» di Giovanni Paisiello]», che piacque assai al letterato.

Il 23 novembre fu ospite a pranzo del principe di Lichtenstein, dove s’intrattenne in conversazione erudita sull’«Aristodemo» di Vincenzo Monti, che sarebbe andata in scena successivamente. Qualche giorno dopo, l’autore si presentò, a sorpresa, in casa del principe, per leggere al Goethe la sua tragedia, che giudicò di «svolgimento […] semplice, pacato; i sentimenti, la lingua, corrispondono al soggetto; sono improntati di forza, non disgiunta da tenerezza. Tutto il lavoro rivela un bell’ingegno». Rimproverò all’autore una certa esagerazione (tipica, a suo dire, degli autori italiani) e il Monti non se n’ebbe a male.

Il 24 novembre annotò quanti omicidi si commettessero in Roma e dell’assuefazione ai tragici eventi da parte del popolo.

Il 2 dicembre decantò la bellezza del tempo «bello, caldo, tranquillo, interrotto soltanto da qualche giorno piovigginoso alla fine di novembre, la cosa è affatto nuova per me. Ne godo passando le belle giornate all’aria libera, le cattive nella mia stanza, e dovunque ho qualcosa da vedere , da imparare , da fare , sempre con piacere».

Il 28 novembre era tornato presso la Cappella Sistina, al fine di ammirare i dipinti della volta, cogliendo la strettezza degli spazi, dove lavorò Michelangelo, «se non che il disagio è compensato largamente, dalla vista di quel capolavoro. Ed io sono in questo momento compreso di tanta ammirazione per Michelangelo, che nulla io trovo superiore nella natura, tuttoché io non la possa contemplare con quella vastità di sguardo, con il quale egli la vide».

Quindi passò alle logge di Raffaello: «I nostri occhi erano rimasti cotanto colpiti da quelle forme grandiose, dalla perfezione stupenda in ogni sua parte di quella immensa composizione, che non potevano comprendere subito la grazia squisita di quegli ornati, di quei rabeschi finissimi, e che le stesse scene bibliche, per quanto siano belle, non ci producevano in quel momento tutto il loro effetto». Seguì la visita ai giardini di Villa Pamphili «con un sole quasi caldo. Una vasta prateria tutta piana, circondata di elci e di pini, era tutta ricoperta di margherite, le quali si volgevano tutte dalla parte del sole», dove poté anche perfezionare le cognizioni sulla botanica.

La visita nella Città eterna confessò che lo avrebbe profondamente cambiato.

Lascia un commento

search previous next tag category expand menu location phone mail time cart zoom edit close