Le donne nella vita e nelle opere di Giacomo Leopardi: Teresa Carniani Malvezzi

Teresa Carniani Malvezzi (1785 – 1859)

Nel settembre del 1825, Leopardi soggiornò a Bologna, ospite della società letteraria dell’epoca, verso i cui membri si mostrò con modesta affabilità, al fine di non attirarsi critiche ed invidie. Trascorse l’inverno soffrendo assai il freddo e la mancanza di un amore; in primavera, invece, com’era uso, la salute riprese maggior vigoria, rincuorato dall’invito dell’Accademia dei Felsinei di recitare i suoi lavori. Così, davanti ai più bei nomi della società bolognese, lesse l’«Epistola al Pepoli», che tanto onore gli avrebbe generato ed allargato il circolo delle conoscenze, tra cui la contessa Teresa Carniani Malvezzi, una delle donne più colte e note.

La contessa nacque a Firenze il 28 marzo 1785; mostrò segni d’intelligenza viva ed acuta da attirare le attenzioni del dotto zio Giovanni Fabbroni, che la iniziò agli studi, in parte osteggiati dalla madre, Elisabetta, che voleva farne una perfetta donna di casa. Quando compì 16 anni fu chiesta in sposa dal conte Francesco Malvezzi de’ Medici, appartenente ad una delle famiglie più nobili d’Italia, così come rammentato dal Muratori.

Vincenzo Monti (1754 – 1828)

Nel novembre 1802, i giovani sposi si trasferirono a Bologna, frequentando la buona società; misero al mondo tre bambini, che perirono nei primi anni di vita; solo l’ultimo, Giovanni, nato il 10 settembre 1819, avrà la fortuna di essere attore delle gioie e degli affetti genitoriali. Pur occupandosi, con amore, dell’ultimo nato, Teresa volle tornare al suo mai sopito amore per gli studi, grazie anche alla magnifica biblioteca, raccolta dal suocero, dottissimo bibliografo. Desiderò conoscere quei letterati, di cui aveva letto le opere: Giuseppe Biamonti le fu insegnante di filosofia greca; Paolo Costa per la poesia, materia diletta della Teresa; il linguista Giuseppe Gasparo Mezzofanti per l’inglese e Olimpia De Bianchi lo studio della letteratura francese. La sua casa divenne, ben presto, un cenacolo, frequentato dai personaggi più in vista della cultura bolognese. Vincenzo Monti la stimò con vivo affetto, tanto da dedicarle un’ottava estemporanea

Bionda la chioma in vaghe trecce avvolta

Ed alta fronte ov’è l’ingegno espresso;

Vivace sguardo, che ha Modestia accolta.

Non in tutto nemica al viril sesso;

Bocca soave in che d’Arno s’ascolta

Lo bello stile, ond’ha fama il Permesso;

Agil persona, dolci modi e vezzi,

I pregi son della gentil Malvezzi.

Ippolito Pindemonte scrisse ad Antonio Papadopoli:

«La signora Malvezzi è per verità donna rara ed io sempre più imparo a stimarla».

Gli studi puntuali e precisi fruttarono una serie di volgarizzamenti, che furono assai apprezzati, tra cui la «Repubblica» e la «Natura degli Dei» di Cicerone; svolti con molta diligenza e con stile elegante e sostenuto.

Le scrisse Urbano Lampredi:

«Mi dispiace molto che non se le si sia presentato l’occasione di farmi avere la sua versione della Repubblica di Cicerone. Ne parlammo nello scorso agosto a Sorrento col celebre scopritore monsignor Mai; anzi fu egli stesso che me ne diede la notizia, commendando molto questo di Lei nobile lavoro».

E Giuseppe Mezzofanti giudicava così il volgarizzamento del «Supremo dei beni e dei mali» di Cicerone:

«Più volte, insino da miei teneri anni, lessi nell’aureo sermone del Lazio i Libri, ne’ quali Marco Tullio ricerca il Supremo dei beni e dei mali. Con diletto nuovo li rileggo ora, da Lei, Sig.a Contessa, volgarizzati. Pare che Cicerone stesso, fatto toscano, in riva all’Arno disputi di filosofia, e con le grazie di nostra lingua adorni i suoi ragionari. Io seco Lei mi congratulo, e godo meco medesimo ripensando all’onore ch’Ella mi fece, allorché volle un tempo che io Le fossi osservatore de’ felici suoi progressi ne lo studio degl’idiomi».

Il «Giornale arcadico» recensì nel settembre del 1827 la traduzione della Carniani del «Riccio rapito» ed il «Messia» del Pope.

Si dilettò anche nella poesia, seppur con risultati marginali:

«Questo è il saggio de’ miei primi e de’ miei ultimi versi e dirò quasi tutti improvvisati. Il cielo mi perdoni».

I lavori rivelano un’indole dolce e malinconica, tenera negli affetti e profonda nelle impressioni della natura e del bello; lo stile porta reminiscenze del prediletto Petrarca, di cui avrebbe scritto:

No, che alla mesta e dolce melodia,

Onde ‘l Cigno di Sorga la beltate

Canta, e ‘l valor di Lei, che in le beate

Sedi levò sua somma leggiadria,

Un cuor di tigre o d’orso non potria

Frenare il pianto, e non sentir pietate;

Talvolta il verso volgeva alla tristezza

Tu testimon de’ miei dogliosi accenti,

Digli come nel duol morta ho ragione,

Di quale acuto strai trafitto ho il core.

E digli come a’ miei giorni dolenti

Speme nessuna mai limite pone,

Sin che propizio a me noi guida amore.

La principale opera poetica è il poemetto «La cacciata del tiranno Gualtieri accaduta in Firenze l’anno 1343». L’argomento è tratto dalla cronaca di Giovanni Villani e dalla storia di Bologna del Ghirardacci. Nella prefazione è scritto:

«Da lungo tempo bramosa di dare al meglio che per me si potesse un testimonio di filiale affetto alla dolce mia patria, considerai che la cacciata del tiranno Gualtieri, azione per sé medesima tanto meravigliosa e che apre largo campo a tutti e sì vari affetti, poteva, raccogliendosene tutti i particolari, essère materia a un poemetto».

Il lavoro rivela una profonda venerazione per i grandi poeti; è costruito seguendo l’imitazione dei classici, di cui troviamo molte reminiscenze. Parrebbe eccessiva la descrizione nel soprannaturale e nel carattere biblico di eventi umani, contestualizzati nell’epoca storica.

Il poemetto riscosse successo, così da meritare il diploma dell’Accademia Felsinea e, nel 1823, dall’Accademia degli Enteleti in S. Miniato di Toscana; nel 1824 il diploma dell’Arcadia e, nel 1826, dell’Accademia Tiberina; nel 1827 dell’Accademia latina ed, infine, nel 1828, il diploma dell’Accademia dei Filergiti di Forlì.

La Malvezzi, trentanovenne, conobbe il ventisettenne Giacomo Leopardi, ospite del suo ambito salotto letterario, dove il Poeta, riservatissimo, avrebbe trovato coraggio, per avviare dotte conversazioni, illuminate dal suo intelletto. Ella era una delle donne più colte del suo tempo, così come affermava Salvatore Retti in una lettera del 1835:

«Se alcuno mi chiedesse: Qual è la donna che nel secol presente rendesi più benemerita de’ gravi studi dei classici? Io risponderei subito: La contessa Malvezzi. E veramente non vedo chi altra poterle paragonare: che là dove nelle eleganze ci ritrae tutto l’oro che fece bello il trecento ed il cinquecento, nella profondità della dottrina ci fa rivivere quella divina Cassandra Fedele, che decus Italiae fu salutata dal Poliziano. Di che pensi ella se mi congratuli con questa comune patria: la quale avendo più che mai bisogno di esempi splendidissimi di vero senno italiano, può mirabilmente specchiarsi in questo gran lume del gentil sesso. Ma venendo alla novella opera che ha voluto tradurre di Cicerone, a quella cioè De finibus, le dirò che la vo leggendo con infinito diletto. Oh la degna, oh la saggia, oh la critica traduzione di che ella ha regalato le nostre lettere! Per non parlar qui della chiarezza ed eleganza dello stile, e della tulliana pienezza e dignità del periodo: perché queste son doti che tutti trovano sempre ne’ magistrali scritti della contessa Malvezzi».

Teresa amava i giovani d’ingegno e quindi fu lieta di accomodare presso il suo salotto il giovane Recanatese, già piuttosto famoso; il fare dignitoso e modesto, la malinconia, l’aspetto malaticcio dovettero suscitare una sincera emozione nel cuore della donna. Giacomo fu accolto con un’affabilità affettuosa e riverente, che provocò, nel suo animo infelice ed avido d’affetto, un impeto di sentimentalità verso quella donna, assai diversa da tutte le altre, che si mostrava come una tenera amica.

Si conobbero nel mese di maggio, allo sbocciare della primavera, stagione amatissima dal Poeta, che aveva deciso di aprire il suo cuore alla Teresa, confidandole i suoi segreti e ricevendo teneri rimbrotti e saggi consigli. Giacomo s’infiammò per cotanta gentilezza, tanto da immaginarla quale donna ideale, come confessò al fratello Carlo:

«Questa conoscenza forma e formerà un’epoca ben marcata della mia vita, perché mi ha disingannato del disinganno, mi ha convinto che ci sono veramente al mondo dei piaceri che io credeva impossibili, e che io sono ancor capace d’illusioni stabili, malgrado la cognizione e l’assuefazione contraria così radicata, ed ha risuscitato il mio cuore, dopo un sonno, anzi una morte completa, durata per tanti anni1».

Grazie a Teresa, il Poeta sentì, ancora una volta, il desiderio di amare, grazie ai rari momenti d’intensa emozione, che viveva con la contessa:

«Le lodi degli altri non hanno per me nessuna sostanza: le sue mi si convertono tutte in sangue e mi restano tutte nell’anima1».  

Anche l’indole malinconica sembrava legare le due anime; Teresa mostrava di apprezzare non solo l’altissimo ingegno ma anche il cuore del Poeta, che si sentiva rapito di così tanta emozione da palesare interamente la sua interiorità di grandi idee e dotte citazioni.

La Malvezzi, usa a frequentare letterati e pensatori, probabilmente non si preoccupò di risvegliare nell’uomo la passione: il contegno riservatissimo che soleva tenere Giacomo, la purezza assoluta dei costumi e la nobiltà d’animo, che si rivelava nelle tante lettere, ma acconsentì ad accettarlo in casa quale conforto per la sua compagnia. Ogni sera, attorno alle 18 il Poeta bussava alla porta della Teresa e s’intratteneva fino alla mezzanotte, conversando di lettere e filosofia, leggendole i suoi versi, che trovava sì sublimi da promuoverla al pianto.

Giacomo s’interessava ai lavori della Teresa, le procurava inoltre dei libri, consigliandola nella scelta delle letture. Il Leopardi, constata la comunione d’intenti, pur esprimendosi in una riservatezza molto contenuta, volle credere in una simpatia sentimentale, anche se rivelata quale affettuosissima amicizia, poiché la contessa considerava il Poeta soltanto che un fratello, un amico di studi.

Quando il Poeta tornò a Bologna nel 1827, chiese d’incontrare la Teresa, al fine di dichiararle il suo amore; la contessa trovò quelle parole irriverenti e, nel contempo, vide definitivamente tramontare l’amicizia, a cui teneva molto. Gl’incontri intellettuali furono interrotti e, col tempo, il Leopardi si pentì di quell’improvvida dichiarazione:

«Contessa mia, l’ultima volta che ebbi il piacere di vedervi voi mi diceste così chiaramente che la mia conversazione da solo a sola vi annoiava, che non mi lasciaste luogo a nessun pretesto per ardire di continuarvi la frequenza delle mie visite. Non crediate ch’io mi chiami offeso; se volessi dolermi di qualche cosa, mi dorrei che i vostri atti e le vostre parole, benché chiare abbastanza, non fossero anche più chiare ed aperte. Ora vorrei dopo tanto tempo venire a salutarvi, ma non ardisco farlo senza vostra licenza. Ve la domando istantemente, desiderando assai di ripetervi a voce che io sono, come ben sapete, vostro vero e cordiale amico2».

Nel salotto della Teresa, il Recanatese trascorse attimi davvero sereni, momenti, certamente, tra i migliori della sua vita, grazie alla generosa ed intima bontà concessa dalla contessa. A causa di quella dichiarazione, quell’amicizia, così confortevole, si tramutò in un nuovo dolore.

Paolina Leopardi (1800 – 1869)

Nel maggio del ’28, Giacomo scrisse alla sorella, Paolina, di aver composto dei versi, reminiscenze di quell’amicizia ormai trascorsa:

E voi, pupille tremule,

Voi, raggio sovrumano,

So che splendete invano,

Che in voi non brilla amor.

Nessuno ignoto ed intimo

Affetto in voi non brilla:

Non chiude una favilla,

Quel bianco petto in sé.

Anzi d’altrui le tenere

Cure suol porre in gioco;

E d’un celeste foco

Disprezzo è la mercé3.

Le pene d’amore si spensero, col trascorrere del tempo, ed il cuore di Giacomo era pronto a risorgere più fremente e più grande.

Teresa trascorse gli ultimi anni della sua vita, dilettandosi negli studi e provvedendo con solerzia alle faccende domestiche, rincuorata dal figlio, Giovanni, che nel 1849 avrebbe assunto il comando della Guardia civica; nel ’59 membro della Giunta provvisoria di governo e quindi deputato all’assemblea delle Romagne, in cui promosse l’unione al Regno d’Italia.

Spirò la notte del 9 gennaio 1859.

(1) G. LEOPARDI. Epistolario volume I. Lettera a suo fratello Carlo a Recanati del 30 maggio 1926, pag. 456. Le Monnier 1864

(2) G. LEOPARDI. Appendice all’Epistolario di Giacomo Leopardi. Lettera, senza data, a Teresa Carniani Malvezzi. Le Monnier 1864.

(3) G. LEOPARDI. Canti. Il Risorgimento. Nuova edizione a cura di Leone Ginzburg. Laterza 1938.

2 pensieri riguardo “Le donne nella vita e nelle opere di Giacomo Leopardi: Teresa Carniani Malvezzi

  1. Michele Rienzi 03/11/2022 — 17:25

    Interessante articolo sulla contessa Malvezzi, tuttavia la pregherei di modificare l’anno di nascita, giacché non è il 1675, ma il 1785.

    1. È chiaro che si è trattato di un errore di battitura

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