Gabriele D’Annunzio: l’Italia in guerra

Luigi Albertini (1871 – 1941)

Il 23 luglio 1914 l’Austria inviava il suo pesante ultimatum alla Serbia; la guerra era nell’aria. Il Gabriele scrisse all’Albertini, ponendo la sua presenza in terra francese in contrasto con l’eventuale partecipazione dell’Italia al conflitto, schierata nella Triplice Alleanza. Il direttore del Corriere rassicurò il Poeta, ben conoscendo come sin dal 1902 il governo italiano avesse promesso la neutralità alla Francia in caso di guerra.

Le ostilità iniziarono il 28 luglio; la Germania dichiarò guerra alla Russia ed alla Francia, mentre l’Inghilterra all’Austria ed alla Germania: apparve chiaro immediatamente la preoccupante dimensione delle manovre belliche. Il 3 agosto, il governo italiano dichiarò la sua neutralità in piccata risposta alla mancata informazione da parte degli alleati.

Il Gabriele, in sempre più evidenti difficoltà economiche, ancor più drammatiche per lo scoppio delle ostilità nel continente europeo, chiese aiuto all’Albertini, il quale gl’inviò  cinquemila franchi in cambio di articoli per il giornale, che sostenessero la neutralità dell’Italia. Il Poeta rifiutò, perché in cuor suo sperava in un attacco all’Austria, ed ottenne un salvacondotto, per condursi da Natalia, che si trovava a Villacoublay, mentre il 9 agosto spirava la sorella a Pescara. Brigò al fine d’ottenere dei nuovi salvacondotti, per recarsi nei teatri di guerra, onde trascrivere l’orribile spettacolo sui «Taccuini», approfittando anche della Romaine Brooks, disposta ad accompagnarlo quale disegnatrice dell’Illustrazione italiana. Il 13 agosto inviò a Le Figaro un’ode («Ode pour la résurrection latine»), in cui auspicava l’ingresso in guerra dell’Italia a fianco della Francia, in nome della comune latinità. Il Corriere pubblicò l’ode quale fatto letterario; il 23 agosto il D’Annunzio inviò al quotidiano milanese un lavoro vicino alle posizioni del giornale. I contatti coll’Albertini divennero molto stretti.

Le truppe tedesche, intanto, avevano duramente sconfitto i francesi a Charleroi e puntavano su Parigi; il governo si preparò a trasferirsi a Bordeaux e la popolazione sgombrava dalla capitale; il D’Annunzio invece tornò a Parigi, per mettere al sicuro i manoscritti, conservati nell’appartamento di rue Kléher.

Il 2 settembre si completò il trasferimento del governo francese a Bordeaux, mentre il Gabriele si recò all’Ambasciata italiana, per ottenere un nuovo salvacondotto, mentre continuava ad annotare gli eventi e, soprattutto «la meravigliosa agonia di Parigi», inviando dei resoconti al Corriere.

Il 3 settembre, le truppe tedesche, comandate dal generale Von Kluck, virò verso la Marna, evitando Parigi, per raggiungere Château Thierry; il 5 settembre, nella battaglia dell’Ourcq, i francesi riuscirono a bloccare i tedeschi, mentre il Poeta riparava a Villacoublay. Il giorno dopo, il D’Annunzio rincasò in una Parigi deserta, recandosi nelle strade, per testimoniare lo scempio della guerra; non contento ottenne il benestare, per recarsi nei teatri di guerra di Ferté Milon. Il 18 si recò a Soisson, ancora sotto il tiro dell’artiglieria nemica. Il 24 settembre, pubblicò sul Corriere e su Le Gaulois i resoconti, che, due anni più tardi, riveduti e corretti, sarebbero apparsi nella Licenza de «La leda senza cigno».

Intanto, prendeva, in D’Annunzio, sempre più forma la condanna della neutralità italiana a favore della discesa a fianco della Francia, reclamizzata all’indomani dell’incendio della cattedrale di Reims da parte dei germani, analizzata quale attacco «luterano» alla «cattolicità» latina. Celebrò i bombardamenti francesi contro i forti austriaci di Cattaro e pubblicò una lettera sul Corriere, in cui chiedeva la fine della neutralità italiana. La Germania lo scrisse nella lista degli intellettuali ostili, in compagnia del Leoncavallo e del Puccini. Alla fine del mese di novembre, apprese dai giornali che l’Accademia della Crusca lo aveva eletto accademico corrispondente, mentre a Milano i cinematografi proiettavano «Cabiria» ed al Manzoni andava in scena «Il Ferro» e «La Gioconda».

Luigi Albertini lo sollecitava a scrivere, certo che l’Italia sarebbe scesa in guerra nella primavera del ’15; il Poeta riprendeva le frequentazioni con la Mancini, con Romaine Brooks, intrecciando nuovi e complicati giochi amorosi. Nella polemica intanto tra interventisti e neutralisti, s’incuneò il Gabriele, partecipando a due manifestazioni alla Sorbona il 12 e 13 febbraio dalla Societé des Conférences e dalla Revue Hebdomadaire, «pour la défense de la civilisation latine». Il suo intervento, retoricamente avvincente, gli meritò il titolo di garante dell’intervento italiano, sicché alcuni emissari della Legione garibaldina, in accordo con alcuni ufficiali del Ministero della Guerra, proposero un piano, per forzare la mano al Governo italiano in senso interventista: duemila camicie rosse sarebbero sbarcate in Liguria, diretti alla volta di Roma, per scuotere il Governo centrale.

In marzo, il Comune di Genova lo invitò a parlare agl’italiani per il 5 maggio, in occasione dello scoprimento a Quarto di un monumento dedicato ai Mille; in quell’occasione avrebbe fatto entrare in Italia i garibaldini.

Ugo Ojetti (1871 – 1946)

Il giorno 16, intanto visitò, in compagnia dell’Ojetti, il teatro di guerra  di Jonchery e, nelle prime ore del pomeriggio, visitò la cattedrale dei Reims, dove prese delle macerie, per conservarle successivamente al Vittoriale. Annotò ogni aspetto desolato dell’edificio bombardato; quindi visitò il cardinal Luçon ed, a tarda sera, rientrò a Parigi, dove cenò con Peppino Garibaldi.

Ildebrando Pizzetti (1880 – 1968)

Il 20 marzo andava in scena al Teatro alla Scala «Fedra» nella versione musicale del Maestro Pizzetti, che non ottenne successo.

L’11 aprile, davanti ad un pubblico entusiasta, si tenne la lettura di quattro sonetti inediti di Gabriele presso la Sorbona, nell’organizzazione del Comitato Nazionale di beneficenza. Dopo cinque giorni, telegrafò al sindaco di Genova, per confermargli la sua presenza per il discorso di Quarto, perché potesse invitare Sua Maestà. In Arcachon, scrisse alcuni articoli politici per La Petite Gironde e Le Figaro; cedeva i diritti cinematografici de «La figlia di Iorio». Il 29 aprile lasciò, accompagnato da Natalia, per sempre Arcachon, per trasferirsi a Parigi e consegnare all’amico Ettore Cozzani il testo del discorso di Quarto, che sarebbe stato preventivamente spedito al Presidente del Consiglio, Antonio Salandra. Il 3 maggio, il Gabriele partiva da Parigi, coll’Antongini e Peppino Garibaldi ed alcuni rappresentanti della lega franco – italiana. Natalia non fece parte del piccolo plotone; purtroppo, le vite si sarebbero per sempre divise ed ella, come tante donne, che avevano sinceramente amato il Poeta, avrebbe finito la propria esistenza nella più completa indigenza, il 5 novembre 1941 a Meudon Valfleury.

Il Poeta giungeva all’1,30 del 4 maggio in terra italiana salutato da un gruppo di compatrioti; i festeggiamenti si ripeterono durante il lungo tragitto, toccando il culmine alle ore 21,35, quando finalmente il convoglio ferroviario entrò a Genova. Molte le autorità presenti e la folla radunatasi, per vedere il Poeta, che a stento fu fatto salire su un’automobile e condotto all’Eden Palace. In Piazza Ferrari, prese la parola dal balcone, e conservò le frasi del discorso in apertura del volume «Per la più grande Italia», dicendo: «Non ci turbi la notizia dell’improvvisa assenza che non può essere cagionata da un divieto oscuro, ma dal dovere della vigilanza estrema, dalla necessità di stare a buona guardia». Il Governo italiano, che, in un primo momento, aveva appoggiato l’iniziativa patriottica, dopo aver letto il discorso del D’Annunzio, aveva tolto l’avvallo dalla manifestazione, limitandosi all’invio di un telegramma di cortesia.

Il discorso di Quarto

La mattina del 5 maggio, davanti allo scoglio di Quarto, si registrò un grande entusiasmo, nonostante la gran massa dei garibaldini fosse ridotta a poche diecine di superstiti; il sindaco lesse il telegramma del Re, quindi fu scoperto il monumento, poi il D’Annunzio declamò le ventotto pagine dell’«Orazione per la sagra dei Mille», un profluvio di citazioni mitologiche, di luoghi storici ed antichi, di retorica roboante, come «la radice smisurata della stirpe travaglia nei secoli per convertire l’evento in clima eternale». Il Gabriele accennò nel discorso alla  necessità di una rinascita per «un’Italia più grande», invitò il Re a porsi a capo dell’esercito.

L’eco della manifestazione sulla stampa italiana fu vastissima e assunse posizioni diverse ed opposte; al Poeta, il giorno dopo, gli fu offerto il calco del Leone di S. Marco; la sera riceveva dal sindaco di Genova un targa di bronzo. Il giorno 7 era ancora ospite in sontuosi ricevimenti, dove si prodigava in discorsi elettrizzanti l’uditorio, come all’Università, dove si rivolse agli studenti:

«Partite, apparecchiatevi… Voi siete le faville del sacro incendio. Appiccate il fuoco!»

Dopo aver pronunciato sette discorsi in quattro giorni, si rivolse alle compagnie galanti, mentre Ugo Ojetti lo pregava di non mettersi «adesso a fare il mondano e il pivello. Ha 52 anni e, appena può, non parla che di donne e di donnette e non desidera che intrufolarsi tra le sottane più equivoche».

Intanto, il Governo italiano, siglando il 26 aprile, il Patto di Londra s’impegnava a scendere in guerra entro un mese; i preparativi per la guerra erano già in atto. Benito Mussolini, sulle colonne del Popolo d’Italia, proponeva di «fucilare nella schiena qualche decina di deputato e mandare all’ergastolo almeno un paio di ex ministri».

Il D’Annunzio si recava a Roma, annunciato con strepito dagli interventisti, che lo accolsero da eroe all’arrivo alla Stazione Termini, per accompagnarlo trionfalmente all’albergo Regina, dove il Poeta, dal balcone, parlò, salutando il Re e la Regina Madre e, nel contempo, incitando il popolo a prendere le armi.

Antonio Salandra (1853 – 1931)

Il 18 maggio, il Governo, presieduto dall’onorevole Salandra, si dimise, mentre nelle piazze italiane si registravano scontri tra le fazioni opposte. L’indomani il Gabriele incontrò il dimissionario Ministro delle Colonie, Ferdinando Martini, il quale provvide ad informarlo degl’impegni presi dal Governo con l’Intesa e dell’avvenuta denuncia della Triplice. Tornato in albergo, il Poeta scrisse un discorso diretto al popolo genovese; alle ore 19 fu chiamato da una massa di manifestanti ed il Gabriele si affacciò al balcone, gridando:

«Se considerato è come un crimine l’incitare alla violenza i cittadini io mi vanterò di questo crimine, io lo prenderò sopra me solo». Finì intonando l’Inno di Mameli.

Durante una serata al Teatro Costanzi, il D’Annunzio prese la parola nell’intervallo, denunciando il Patto di Londra ed accusando il Giolitti di aver tentato di dar recedere il Paese dai patti stipulati dal Governo.

Vittorio Emanuele III (1869 – 1947)

Il 16 maggio, il Re respinse le dimissioni del Governo, la piazza si calmò d’incanto, mentre il Gabriele arringava dal Campidoglio la folla, inneggiando all’immancabile vittoria. La stampa estera esaltò le gesta del Poeta, che fu ricevuto da Vittorio Emanuele III.

Il 20 maggio, Salandra chiese al Parlamento i pieni poteri, che furono concessi coll’astensione del Gruppo socialista. Per D’Annunzio fu un trionfo personale, riconosciuto dalle centinaia di lettere, che arrivarono presso l’Hotel Regina. Anche Barbara Leoni, decisa interventista, gli scrisse, proponendosi per eventuali opere di beneficenza; la lettera fu conservata al Vittoriale.

Il 22 maggio, lo Scrittore fu ricevuto dal Ministro della Marina e da quello della Guerra, per essere assunto in servizio attivo come ufficiale.

Il 23 maggio 1915, l’ambasciatore d’Italia notificava al Governo austriaco la dichiarazione di guerra.

«Compagni è l’alba. La nostra vigilia è finita. La nostra ebrezza incomincia. Il cannone tuona. Il sangue sgorga dalle vene d’Italia! O compagni, questo non è il gelo dell’alba ma un brivido più profondo. E siamo tutti pallidi. Il sangue comincia a sgorgare dal corpo della Patria. Il nostro Dio ci conceda di ritrovarci, o vivi o morti, in un luogo di luce».

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