Il sonetto fu scritto il 14 settembre del 1830. Esso ubbidisce alle rime: ABAB – ABAB – CDC – DCD.
La mamma parla con la figlia, la quale sarebbe – a suo giudizio – molto aderente ai confini della morale, sicché si priverebbe di tante comodità, che potrebbe acquisire attraverso un comportamento diverso. L’invito è chiaro e perentorio: se un ricco volgesse lo sguardo, la invita a mostrarsi ben disposta a servirlo, e pronta ad accettare anche gli eventuali fastidi. Se nascessero delle chiacchiere a proposito dell’atteggiamento, allora la ragazza dovrebbe virare verso una condotta maggiormente riservata; ricordando sempre che l’aiuto non arriverà mai gratis dal prossimo, ed al fine di non affogare, ognuno si deve aiutare come può.
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Vedi l’appiggionante ch’ha ggiudizzio
Come s’è ffatta presto le sscioccajje?
E ttu, ccojjona, hai quer mazzato vizzio
D’avè scrupolo inzino de le pajje!
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Io nun te vojjo fa ccattivo uffizzio,
Ma indóve trovi de dà ssotto, dajje:
Si un galantomo ricco vò un servizzio,
Nun je lo fa ttirà cco’ le tenajje.
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T’avessi da costà cquarche ffatica,
Vorrebbe dì: ma ttu méttete in voga
E ppoi chi rróppe paga: è istoria antica.
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Oh, cquanno vederai troppa magòga,
Tiètte su, e dàlla a mmollica a mmollica.
Chi nun s’ajjuta, fijja mia, s’affoga.
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(Vedi la condomina che ha giudizio / ha comprato in breve tempo degli orecchini? / e tu, ingenua, a causa di quel maledetto vizio, / provi degli scrupoli anche per un nonnulla.
Io non voglio mal servirti / ma dove trovi la possibilità, accetta: / se un ricco volesse qualche servizio / non farlo attendere per troppo tempo.
Qualora ti costasse fatica, / vorrei pur darti ragione, ma tu agisci lo stesso / e poi chi rompe paga: è una vecchia storia.
Quando sentirai troppi pettegolezzi / non ti abbattere, e dalla con parsimonia / perché chi non si aiuta, figlia mia, si affoga).