Il Poeta di Maria Teresa d’Austria

Il 20 ottobre 1740, morì l’imperatore Carlo VI; la sua dipartita fu così commentata da Pietro Metastasio in una lettera inviata al suo amico romano, Giuseppe Peroni:

«Ieri, nell’entrare del giovedì, un’ora e mezza dopo la mezzanotte, passò all’altra vita, il mio Augustissimo Padrone Carlo VI. Non occorre che vi dica di più per farvi concepire la mia desolazione. Gli ultimi giorni della sua vita preziosa ci hanno fatto conoscere il peso della nostra perdita, poiché non ci è stato momento in cui non abbia dato prova di pietà, di costanza ed amore verso i suoi popoli. È spirato, adempiendo fino all’ultimo istante le parti di cristiano, di padre, di principe e di eroe. Le mie lagrime, che non ispargerò più giustamente, non mi permettono di dilungarmi. Mi trovo così oppresso dall’aspetto della pubblica disgrazia, che non sono ancora capace di esaminare le circostanze della mia. La sua infermità ha durato sette giorni ed alcune ore, ed è stata una infiammazione di stomaco, mal conosciuta da’ medici. Imploratemi costanza da Dio, che veramente non me ne sento abbastanza provveduto. Addio, caro amico».

Riconoscente per i benefici e le lodi ricevute, il Metastasio apparve sinceramente colpito ed anche in angoscia per l’incerto futuro. La cabala fu sciolta dalla nuova imperatrice, Maria Teresa, quando il Metastasio, il 12 novembre 1740, informò l’abate Anton Franceso Gori che «la nostra Regina (che già ne’ primi giorni del suo governo è divenuta l’amore e l’ammirazione universale) si è degnata di farmi comandare e poi di comandarmi di propria bocca di rimanere nel suo real servizio, ma non so finora a quali condizioni né con qual titolo».

Il Poeta avrebbe mantenuto lo stesso incarico, pur accettando una riduzione del numero delle feste teatrali, a causa dell’adozione di una severa politica di austerità economica, che avrebbe agito anche sulle ricche prebende riservategli.

Il 18 marzo 1741, egli scrisse allo stampatore veneziano Giuseppe Bettinelli:

«Non v’è mistero nel mio silenzio. Il mio funesto ozio non mi ha somministrato occasioni onde continuare l’usato costume d’inviarvi i miei nuovi componimenti. La perdita del mio Padrone mi ha fatto quasi dimenticar di me stesso non che degli altri».

Le preoccupazioni per le mancate assegnazioni mensili furono anche dimostrate in una lettera del dicembre 1741, indirizzata al Conte Tarocca:

«Se si ha riguardo al buon volere, trattandosi di liberar dal naufragio chi tutti ha sacrificati i suoi giorni alla coltura dell’ingegno, non veggo di chi dovess’io promettermi propensione più benevola, che da un cavaliere, che tanto ancor per questa via si distingue, lasciandoci incerti, se ne sia egli più debitore alla natura che a sé stesso. Che più? la difficoltà istessa di questo affare mi assicura che Vostra Eccellenza l’intraprenderà con minor repugnanza, poiché le facili imprese son poco degne di lei. Non credo opportuno di trattenerla più lungamente, informandolo delle circostanze che rendono più compassionevole il caso mio. Dirò tutto, dicendo solo che, chiamato dalla mia patria da un comando cesareo, che, avendo servito dodici anni l’Augustissima Casa con mille replicati segni d’un clementissimo gradimento, che, convinto della benigna volontà de’ miei sovrani di beneficarmi, pure, per un concorso di infelici accidenti, io sono il solo servitore che, privo di premio o di mercede, si ritrovi ora in molto peggiore stato di quando incominciò a farsi merito».

Nel 1740, salì al soglio Benedetto XIV, il cardinal Lambertini, il quale manifestò il desiderio di avere alla corte pontificia il Poeta cesareo, che, nel mezzo di tante incertezze, avrebbe forse anelato ad un rientro nella città eterna. Probabilmente delle trattative, attraverso i suoi congiunti, furono avviate, come si evince nella lettera del 9 febbraio 1742 indirizzata al padre, Felice:

«Io vi assicuro che il più vivo de’ miei desideri è quello di rivedervi, di abbracciarvi e di darvi testimonianza della mia tenerezza, del mio rispetto, che uguagliano il mio debito, giacché gli angusti limiti, tra’ quali mi ha sempre tenuto la mia fortuna, non mi han mai permesso il convincervene in altra forma. Ma non veggo finora prossima apparenza, onde intorno alle generose intenzioni del pontefice a mio riguardo non può contarsi finora per altro che per buon augurio, sul quale sarebbe mal sicuro il fondar edifizi».

Egli non si fidava alquanto delle offerte del nuovo Pontefice, preferendo la sicura protezione della contessa d’Althann presso la rinnovata corte viennese, piuttosto che l’incertezza della nuova destinazione e così la trattativa si arrestò.

Nel marzo del 1741, Maria Teresa divenne madre di Giuseppe, futuro imperatore, e, per l’occasione, il Metastasio compose il brevissimo dramma «L’amor prigioniero», che sarebbe stato rappresentato privatamente nel palazzo reale.

E’ un semplice dialogo tra Diana ed Amore, che si svolge sull’isola di Delo. Avendo trovato Amore addormentato, Diana lo rende prigione ed egli prega le ninfe cacciatrice di liberarlo, promettendo loro in cambio la vittoria su ogni forma di gelosia. Diana manifesta la sua perplessità, perché Amore abbia chiesto pietà alle sue nemiche, che il prigione non considera tali e così la dea eccita le ninfe alla vendetta. Esse non si muovono ed Amore commenta:

Queste nemiche mie son tutte amanti.

Le ninfe si riscontrano tali e quindi, riprendendo un motivo dall’«Aminta» del Tasso, Amore scusa le ninfe, minacciando al contempo Diana di rivelare al mondo il suo amore segreto per Endimione. La dea spaventata libera Amore, nominandolo guida e maestro.

Argomento assai fragile che probabilmente non sortì presa sull’uditorio.

Durante il regno di Carlo VI, il Metastasio nutriva stima e riceveva pubbliche acclamazioni dai cortigiani; nel principio del regno di Maria Teresa, fu posto quasi in oblio, non fu più ricercato ed accolto con tanta assiduità e premura.

Scrisse all’abate Cori il 7 luglio 1742:

«Se gli affari pubblici prenderanno una volta un assetto durevole, non dubito che si penserà seriamente a renderle giustizia; ma, tra questi orribili tumulti marziali, non è poco se le povere Muse non sono oppresse del tutto».

E il 18 agosto, ribadiva allo stesso:

«Le circostanze nelle quali si trova questa Corte sono ridenti per le speranze che portan seco, ma i frutti delle medesime non parmi che sian per maturar sollecitamente per i poveri seguaci delle Muse. Non abbandoni per questo V. S. illustrissima il commercio delle medesime; il frutto di gloria ch’Ella ne ritrae è grande, continuo e sicuro; e seguirà anche il resto, quando torni un poco di tranquillità».

E il 15 gennaio del 1743, tornava a scrivergli:

«In questi torbidissimi tempi, i bisogni pubblici assorbiscono tutta l’attenzion de’ Sovrani, e non può attendersi a’ privati. E creda che, vicini al fonte, non si sta meglio che lontani, non essendo la distanza la cagione per cui siam negletti. Auguriamoci tempi migliori, e conserviamo intanto gelosamente quel sughero che ci resta, per mantenerci almeno a galla finché passi la tempesta».

Un poco alla volta, il Metastasio riprese conforto, nutrendo speranze per il futuro, come si evince da una lettera scritta al padre, Felice il 13 giugno 1744:

«E’ verissimo che le torbide circostanze, nelle quali io mi son trovato, secondano il maligno lavoro che gli anni vanno facendo in questo mio non solidissimo edifizio. Mi avevano ridotto più malinconico che io per natura soleva essere; ma ora, lodi al cielo, mercé l’aspetto funesto  de’ pubblici affari è l’assiduo commercio co’ miei libri, che mi seducono dalle riflessioni moleste, ho sensibilmente migliorato. Io v’imito nel desiderio della felicità che voi presagite, ma non già nelle speranze. Sono tanto avvezzo ad essere deluso da queste, che allora meno me ne fido, quando paiono più ridenti; e con questa incredulità divido gran parte del colpo che si riceve quando svaniscono».

La Contessa d’Althann continuava a proteggerlo ed assicurarlo, nonostante le rare occupazioni di corte, cui il Metastasio era chiamato.

Quando la Regina recuperò gli stati tedeschi e la Boemia, la pace ritornò in corte, cosicché al Poeta fu chiesto un breve componimento, «Il vero omaggio», per festeggiare il secondo compleanno del piccolo Giuseppe, che sarà rappresentato presso Schönbrunn il 13 marzo 1743.

Si tratta di un dialogo pastorale tra Dafne, la quale confessa ed Eurilla che, pur essendo innamorata, pensa

Al Pargoletto

Reale infante

cui si propone di offrire un tributo di «colte rime»:

Ai versi miei

Del Lotaringo e dell’Austriaco sangue

La remota comun chiara sorgente

Primo oggetto sarà. Ciascun di loro

Quante, dirò, varie provincie, e quanti

Troni illustrò; per quante vene è scorso

D’eroine e d’eroi; qual dì felici

Speranze in noi s’accumulò tesoro,

Or che nel sospirato

Germe Real gli ha ricongiunti il fato.

Dafne vorrebbe celebrare i meriti della coppia regale, ma, temendo di offendere la loro modestia, si dispone a lodare l’Infante reale, al quale vaticina un futuro di grande guerriero.

Quanto traluce

Già negli scherzi suoi

Bellicoso valor, quanto rispetto,

Benché bambin, col maestoso ciglio,

Già ne inspira, dirò.

Rinunciando alla speranza di poter celebrare il fanciullo con delle lodi adeguate, Dafne porge con Eurilla l’omaggio di voti sinceri per il futuro del principino, per cui domanda agli dei:

Fate ch’ei vegga

Lunga nata da lui serie d’eroi;

e le due ninfe concordi:

Ed i nostri aggiungete ai giorni suoi.

Spiega la chioma altera,

E la stagion severa

Non giunga mai per te.

L’aura ti scherzi intorno,

Ma con modeste piume;

E ti lambisca il fiume,

Ma, rispettoso, il piè.

Fu davvero un lavoro poco commendevole ed il Poeta ne fu ben consapevole, soprattutto quando ebbe occasione di riscattarsi per le feste seguite all’incoronazione, avvenuta nel maggio del 1743, di Maria Teresa, Regina di Boemia. Il Metastasio compose l’«Ipermestra», musicato dall’Hasse, la cui prima fu rinviata al 17 gennaio del 1744 per l’inaspettata ed improvvisa morte dell’Arciduchessa Maria Amalia, sorella di Carlo VI, quando si festeggiarono gli sponsali, che avrebbero unito la sorella dell’imperatrice, l’Arciduchessa Marianna, al Principe Carlo di Lorena.

Il soggetto dell’«Ipermestra» fu tratto da Apollodoro e da Igino. La protagonista è combattuta trai suoi doveri di figlia e quelli di sposa; per una triste cabala vorrebbe salvare la vita del padre come del marito, che avrebbero dovuto sopprimersi a vicenda e grazie alla virtù centra il suo obiettivo. Danao allora cederà la corona ad Ipermestra, giudicandola maggiormente degna di governare, omaggio doveroso a Maria Teresa

Il regio serto

Passi al tuo crine, e sul tuo crin racquisti

Quello splendor, che gli scemò sul mio.

Ah così potess’io

Ceder dell’universo a te l’Impero!

Renderei fortunato il mondo intero.

E tutti in coro, inneggiano ad Ipermestra -Maria Teresa:

Alma eccelsa, ascendi in trono;

Della sorte ei non è dono

E mercé di tua virtù.

La virtù, che in trono ascende,

Fa soave, amabil rende

Fin l’istessa servitù.

Pochi mesi dopo, il Metastasio fu incaricato di scrivere un nuovo dramma per la corte di Dresda: l’«Antigono», musicato dall’Hasse e rappresentato nel carnevale del 1744 al Teatro Reale ed Elettorale di Dresda.

L’argomento fu tratto dalle storie di Trogo Pompeo. Demetrio, figlio del re di Macedonia Antigono, ama la principessa egiziana Berenice, chiesta dal padre in sposa. La predestinata fugge da Demetrio, per mantenere fede al voto professato, nonostante senta naturale trasporto per il giovane principe, il quale, a sua volta, nutre perplessità nell’atteggiamento della donna. Accortosi il genitore dell’insano affetto, che nutre il figlio per la fortunata, lo esilia, quando il regno di Macedonia è attaccato dal rivale Alessandro, re dell’Epiro. La catastrofe si conclude con l’arresto di Antigono e la permanenza nelle prigioni del vincitore, da cui sarà sottratto dall’eroismo del figlio, che sarà premiato con la concessione della mano di Berenice.

L’azione si presenta assai disordinata e confusa, a causa dei tanti mutamenti di scena in ogni atto e del precipitare degli eventi, a volte sconnessi e addirittura inverosimili. Spesso il tragico sconfina nel comico: per non tradire il padre, Demetrio vorrebbe morire, allora Berenice si prepara al trapasso ed Antigono, credendo il figlio già scomparso, si domanda

Ma che diranno

I posteri di te? Come potrai

L’idea del fallo tuo, gli altri, e te stesso,

Antigono, soffrir? Mori; quel figlio,

Col proprio sangue, il tuo dover t’addita.

Il Metastasio, divenuto per la Corte di Dresda poeta regio, si rivolge al re di Sassonia nella Licenza:

Se dolce premio alla virtù d’un padre,

Adorabil Monarca,

È dei figli l’amore, oh come, oh quanto

Più d’Antigono il sei! Non son ristretti

I tuoi paterni affetti

Fra i confini del sangue; hanno i tuoi regni

Tutti il lor padre in te; per te ciascuno

Ha di Demetrio il cor. La fede altrui,

E la clemenza tua sono a vicenda

E cagione ed effetto. Un figlio solo

Antigono vantò nei suoi perigli;

Quanti i sudditi tuoi sono i tuoi figli.

Il Poeta cesareo, avendo studiato lo Zeno, conosceva la forza di queste dediche, che non mancavano mai al termine di ogni componimento, ponendovi tanta cura e coltivandole con estrema assiduità.

Lascia un commento

search previous next tag category expand menu location phone mail time cart zoom edit close