Bozzetti. Vincenzo Bellini

I.

Quando Vincenzo Bellini giunse al suo ultimo anno di studio presso il Collegio di musica di San Sebastiano, era in possesso di una solida conoscenza tecnica, grazie anche allo studio delle opere dei rinomati Haydn e Mozart e del contemporaneo Gioachino Rossini. Un giovane musicista percorreva tutta la gamma dei suoi studi rivolto col pensiero al teatro, componendo un’opera in vece di un saggio finale. In Italia, al Conservatorio di Napoli spettava la palma del miglior luogo, dove poter studiare musica ed era dotato di un teatro interno, per mettere in scena i lavori dei giovani studenti.

E così, Vincenzo Bellini fu chiamato a proporre la sua prima opera, Adelson e Salvini, che fu eseguita nel teatro del Collegio di musica di San Sebastiano il 12 gennaio 1825, su libretto del celebre Leone Andrea Tottola, la cui attività era iniziata nel lontano 1802 con Siface e Sofonisba su musica di Pietro Guglielmi. Dal 1810 al 1823, fu impiegato presso il Teatro S. Carlo, fornendo lavori per le melodie di Gioachino Rossini (Mosè in Egitto, 1819; Ermione, 1819; Zelmira, 1822); Gaetano Donizetti (Gabriella di Vergy, 1816; La zingara, 1822; Alfredo il grande e Il fortunato inganno, 1823); Saverio Mercadante (Violenza e Costanza, 1820; Costanza ed Almeriska, 1823); Nicola Vaccaj (I solitari di Scozia, 1815); Simone Mayr (Elena, 1814; Elena e Alfredo 1821), Giovanni Pacini (Alessandro nelle Indie, 1824); Pietro Generali (La testa meravigliosa, 1822; Le nozze fra nemici, 1823) ed infine Pietro Raimondi (Il disertore, 1825).

Il nobile libretto metastasiano era ormai sulla via della corruzione, investito oltremodo di una forma letteraria priva del minimo decoro. Spesso si ricorreva all’espediente della persona travestita, quindi irriconoscibile, che si sarebbe svelata, nel momento in cui avrebbe fatto comodo all’autore, risolvendo così il corso dell’opera. Nella massima concitazione, nel delirio drammatico, ogni personaggio poi trovava la via, per rifugiarsi in soliloqui cantati, che avrebbero confermato l’assurdità dell’intreccio, sciolto dal deus ex machina finale.

Nell’opera comica, nonostante la puerilità dei soggetti e degl’intrecci, delle solite buffonerie stereotipate, il librettista risolveva, riparandosi sotto una maggiore spigliatezza d’insieme.

Adelson e Salvini non si rivelò quale opera di un principiante, perché rivelò una profonda ed accurata conoscenza del genere ed una notevole sicurezza di applicazione, secondo il metodo rossiniano, ricco di mordacità musicali e caratteristica vis comica. Bellini non lo imitò pedissequamente, poiché guidato una spirito di reazione perspicace e pungente; Bonifacio, il tipo buffo del servo da commedia, sembra prestato dalla farsa rossiniana. Nel Catanese non prevarrà mai una comicità personale, ma la ricercherà attraverso la scuola, come nella sortita (Bonifacio Beccheria qui presente) all’interno del Terzetto (Questa buona signorina che venir fa l’acquolina). Nel duetto sentimentale tra Bonifacio e Salvini, si contrappone l’incalzante parlata del comico (Per bacco, vergognatevi) così come in quello fra Bonifacio e Nelly (Presa l’esca al contatto col fuoco).

La tipica scintilla malinconica belliniana si accende nella melodia di Nelly (Dopo l’oscuro nembo), che, più tardi, passerà ne I Capuleti e i Montecchi. Particolare perizia si svela nel sostenuto fraseggiare del duetto fra Salvini e Nelly (Ah se non vuoi mio ben), mentre il Quintetto (Che pensar?) appare succinto e levigato, misurato ed armonico, come la visione di un classico. Il finale è acceso dalla bella melodia (Ecco, signor, la sposa), che riceverà il plauso di Hector Berlioz, quando sarà travasata ne La Straniera.

Domenico Gilardoni, librettista di mestiere, fornirà il primo pasticcio col Bianca e Gernando, rappresentata il 30 maggio 1826 presso il Teatro S. Carlo; alla ripresa, avvenuta due anni dopo a Genova, Bellini rimaneggerà la musica, affidando a Felice Romani la rifacitura del libretto.

«I pezzi in cui spero sono le tre cavatine al primo atto e il duetto e le due scene del secondo», scriveva Bellini all’amico Francesco Florimo, qualche giorno precedente la prima. La cavatina di Fernando (A tanto duol) rivela l’impronta rossiniana come quella di Filippo, mentre la scena di Bianca dimostra invece una qualità poco accettabile: la prima parte (La mia scelta a voi sia grata) è un fastoso declamato ed il seguito (Di Filippo il braccio) si può gustare solo la convenzionalità, come pure la cabaletta (Contenta appien quest’alma), che sarà poi trasfusa nella Norma (Ah bello a me ritorna) succintamente variata.

Nel primo atto «genovese» della Bianca, si gusta l’eccellente introduzione della sinfonia, la scena iniziale col recitativo di Fernando, animato di spiriti cantabili, un ottimo finale d’atto ed alcuni episodi incidentali. Il Terzetto dei personaggi virili inizia con un elaborato, acuto dialogo, che si accentua nel successivo Allegro (Spirar vidi io stesso), fiorito d’interessanti modulazioni nel complemento orchestrale; nella terza parte (Taci e serba occulto il foglio) emerge una drammaticità eloquente, la quale accese la melodizzazione del Bellini, che lo utilizzò nell’Adelson e Salvini, nella Bianca e quindi ne Il pirata. Il finale del primo atto si rivela per la forte tensione drammatica sia nell’incontro tra Bianca e Gernando, che nella melodia sostenuta (Ah che l’alma invade un gel!), cui partecipano, una dopo l’altra alla maniera rossiniana, le altre voci, in funzione armonica fino alla risoluzione nell’intensa e vertiginosa stretta finale.

Il secondo atto si apre con una dolce visione di canto puramente belliniana, che illumina la romanza di Bianca, definita dal Compositore «a due», perché un’altra voce femminile è introdotta accanto alla protagonista, riflettendone ed unendosi nella vocalità, plastica, continua, fino ad inarcarsi, per abbandonarsi poi ad un fascino misterioso di cantilena. E’ il canto di Bellini, che si accresce durante lo svolgimento, per stendersi e dispiegarsi sulle parole: «Sorgi o padre e la figlia rimira», in cui la melodia, seppur non raggiunga le alte vette espressive della Norma, è già realtà viva ed animata, raccoglimento, distensione dell’armonia nel codice di un’espressività interiore.

Bianca canta palpitando in una perfetta e commossa geometria simmetrica, di trepidante liricità sfociante – sembrerebbe – in un’architettura parlante. «Quella vita che già tu mi desti» è una melodia, che arde senza fiammeggiare, per poi rigenerarsi in «bagna allora con stilla pietosa»; è uno slancio, che torna su se stesso, una variante che genera quasi una nuova emozione.

Un nuovo anticipo della Norma, Bellini lo fornì col coro Tutti siam?; così come della Beatrice di Tenda colla stretta dell’aria di Fernando (Odo il tuo pianto, o padre), che fornirà la melodia per Ah la morte a cui mi appresso.

Il duetto del secondo tra Bianca e Gernando si svolge nei binari di una singolare potenza drammatica, all’interno di una forma agitata ed ansiosa, incalzante e risoluta nell’azione, che si realizza musica e si compone nei suoi aspetti particolari (Ahi donna misera e Deh fa ch’io possa intendere), dove  trova maggiore intensità, che ritroveremo nel terzetto (Oh Dio qual voce) dai sapori pre – verdiani.

II.

All’inizio del 1827, l’impresario del Teatro alla Scala, Domenico Barbaja scritturò Vincenzo Bellini, perché componesse una nuova opera in collaborazione col librettista più celebre del momento, Felice Romani, uomo di lettere, stimato da Vincenzo Monti, del quale avrebbe mutuato l’indirizzo letterario.

Egli aveva una concezione retorica e purista della letteratura, composta di artificiosa ricercatezza e risonanze manierate del periodare latino.

Purtroppo, i libretti teatrali dimostrarono, sin da subito, una fattura piuttosto evanescente. Il periodare teatrale fu salvato da Apostolo Zeno, che si adoprò, per consegnare, nelle mani di Pietro Metastasio, la possibilità di ringiovanirlo e ricollocarlo sul «regal seggio». Alla morte del poeta cesareo romano, il libretto parlò il tono del vecchio letterato italiano, grammatico lustrato di oratoria, sfavillante di astrazioni estetiche, versato nella locuzione ampollosa.

Felice Romani «risciacquò» il gergo teatrale nella letteratura, anche se non si rese estraneo alle solite assurdità sceniche, le apparizioni ed i soliti conflitti di «amorose passioni». Scrisse molti libretti, collaborando coi musicisti più illustri della sua epoca, tra cui: Gaetano Donizetti, Pietro Generali, Giovan Battista Mayr, Saverio Mercadante,  Giovanni Pacini, Gioachino Rossini, Nicola Vaccaj.

Quando conobbe Vincenzo Bellini, a Milano, il librettista aveva trentanove anni ed alle spalle una discreta collezione di melodrammi. Credeva di essere il solo a saper leggere «in quell’anima poetica, in quel cuore appassionato, in quella mente vogliosa di volare oltre la sfera, in cui lo stringevano, e le norme della scuola, e la servilità dell’imitazione».  

La prima opera del nuovo binomio fu Il Pirata: un’afflitta figura di donna (Imogene), vittima di un amore infelice e perseguitato ed una tragica rivalità, che conterrà luttuose conseguenze per gli avversari (Gualtiero, tenore ed Ernesto, baritono).

Nei primi anni dell’Ottocento, l’opera italiana poneva l’interprete al centro, suggeritore del percorso musicale secondo le proprie esigenze, attraverso delle forme stereotipate come i pezzi, gli assolo e gl’insiemi, le cavatine ed i duetti. Il genio di Bellini fornirà nuove forme, anche se l’inizio conterrà la linea tracciata dal binario della convenzione. Il Pirata rappresenterà la prima tappa, in cui la storia dell’arte belliniana inizierà a proporsi attraverso la creatività, trasformando, a sua immagine, l’ambiente teatrale. Nell’opera, vi è una linea musicale più sicura, rispetto alla Bianca, che si evidenzia nel maggior unità dello stile.

L’opera si apre con una sinfonia, rifacimento dell’Adelson e Salvini, completato con un nuovo innesto: l’allegro agitato in re minore di pura struttura musicale, presentato due volte, perché risolva in fa maggiore su un motivo, tratto dall’Adelson (Oh! Quante amare lagrime); nella seconda presentazione risolve nella tonalità di re maggiore. La scena d’introduzione sembrerebbe anticipare quella dell’Otello di Verdi, musicalmente complessa, divisa in tre momenti: drammaticamente vigoroso e con una sana ed autonoma potenza musicale, il primo; quindi un cantabile (Nume che imperi) e, per concludere, una nuova movenza strumentale (Coraggio, costanza), che condurrà alla stretta conclusiva di maniera.

Un bel recitativo incornicia la cavatina di Gualtiero (Nel furor delle tempeste), fluttuosa ed intensa su un vibrante snodarsi di melodia. L’accento iniziale conserva del cabalettistico, per trasfigurarsi in tono eroico su una tonalità minore ma vigorosa, appena accennata di un senso malinconico, cui segue un immediato maggiore luminoso ed ardente di canto. La seconda parte nasce da un vigoroso movimento strumentale e corale sulle parole Per te di vane lagrime, una melodia intrisa di pianto.

La cavatina d’Imogene (Lo sognai ferito, esangue) merita tutta la nostra viva attenzione. Il gioco strumentale riserva un’invenzione al di fuori delle consuetudini e delle formule correnti: una linea melodica espressiva senza alcun deflesso, in cui si afferma il canto della protagonista. Il mosso seguente è di maniera, mentre il periodo si apre con concentrata ripresa drammatica. Su un pedale ribattuto orchestrale in tono minore, s’incupisce l’orizzonte armonico attraverso dei bicordi di terze, il canto è reso affannoso dalle pause sul battere, che creano ansia e voluta difficoltà nell’espressione.

Il Coro dei Pirati non presenta particolari accorgimenti. La scena, che precede il duetto tra Imogene e Gualtiero (che, tra l’altro, non si riconoscono immediatamente), si compie in un’atmosfera drammatica creata dalla musica, capace di trasfigurare l’assurdo in poesia malinconica e fatale, come un sordo presentimento. Oh! Come io tremo a lui presente!, mormora Imogene, nel tono minore e pianissimo irrorato da una melodia malinconica discendente. Il recitare si scalda (Se un giorno fia che ti tragga), per subire un’interruzione quale risposta di tenerezza agl’interrogativi (Chi sei? Che vuoi? Ch’io parli ancor?); quindi il cantabile riprende (Voce suonava un giorno), per interrompersi nel secco recitare. Il movimento, che segue, è convenzionale, anche se interrotto felicemente da un improvviso moto di vocalità drammatica: un grido di dolore, che diventa musica. L’orchestra presenta un accompagnamento di quartine ribattute come palpiti del cuore sulle parole: se non è ver no’l credo, una linea melodica spezzata dopo una felice arcata espressiva colorata dall’uso della scala armonica minore.

Il duetto si conclude con un pezzo adattato dall’Adelson e Salvini (Bagnato dalle lagrime), da cui trarrà anche la romanza di Ernesto (Si, vincemmo, e il pregio io sento), riprodotta con la medesima figurazione dell’accompagnamento orchestrale e la stretta finale del primo atto è la stessa del finale dell’atto primo dell’Adelson e Salvini.

La gemma de Il Pirata è il quintetto (Parlarti ancor per poco), denso di espressione in tanta essenzialità musicale, dove l’inondazione degli spazi avverrà attraverso il canto puro, libero e rinnovato, che ci condurrà verso sublime altezze di commozione intima. Aleggia uno spirito di tragedia come presentimento, intriso di malinconia, fatalità e rimpianto.

L’ispirazione artistica va poi declinando; risorge invece gagliarda nel duetto del secondo atto tra Imogene e Gualtiero (Vien cerchiam pei mari) di potente forza drammatica. All’agitazione del movimento iniziale, succede un malinconico raccoglimento (Per noi tranquillo un porto), che si riscalda appena in un fremere di canto di vaghe rimembranze chopiniane.

L’altro momento di felice ispirazione è la descrizione del delirio d’Imogene, commentato da un’introduzione orchestrale articolata su un movimento di arpeggi. Il recitativo (Oh! S’io potessi) è efficace per tensione ed accenti, mentre il vaneggiare (E’ giorno, è sera?) è reso da una maggiore scansione recitativa. L’aria (Col sorriso d’innocenza) comincia annunciando le lunghe, solitarie, aeree melodie belliniane, che via via si sterilizzano, illanguidendosi.

III.

Con La Straniera, andata in scena al Teatro alla Scala di Milano il 14 febbraio 1829, Bellini iniziò l’ascesi verso le vette della sua attività artistica. Purtroppo, l’opera risentì di molti pezzi di maniera, dove non sembra brillare l’anima del Catanese, pur consegnandoci uno spartito dotato di un buon senso stilistico. Felice Romani licenziò un libretto macchinoso, laddove la musica riuscì a porre ordine amore e dolore, equivoci inverosimili, complicazioni assurde.

Una regina spodestata si finge fattucchiera, per girare il mondo, finché il conte, Arturo di Ravenstel (il tenore, guarda caso), non le dichiarerà il suo amore, abbandonando la sua fidanzata per la bella «straniera», che chiamerà Alaide.

Il baritono, stavolta, è il fratello della regina, creduto amante da Arturo, che senza tregua lo ferisce e poi, avvedutosi del tragico equivoco, tenta di uccidersi, gettandosi nel lago. L’ora fatale non è ancora giunta per i due contendenti, che hanno salva la vita, mentre la povera Alaide è accusata dell’avvenuto finto delitto e condotta innanzi ai giudici, dove troverà Arturo pronto a sacrificarsi in sua vece, quando Valdeburgo (il fratello) appare «pallido e in bianco manto», ordinando la liberazione degli innocenti.

Non avvi in lor delitto:

in singolar conflitto

caddi di Arturo al piè.

Mentre il destino della «straniera» è salvo, per Arturo sembra giunta la fine e quando Alaide viene posta sul trono, «si trafigge».

Grazie alla musica di Bellini, questo pasticcio acquista uno svolgimento naturale e logico, in cui i fatti più inauditi sono riportati all’ombra della verosimiglianza con bagliori di espressioni, seppur vaghi ed imprecisi, donando qualche sembianza d’umanità ai fantasmi dei personaggi. Valdeburgo acquista accenti di profonda umanità, togliendo così l’immagine di spettro, proposta nella poesia del Romani.

Bellini è maturato nella sicurezza e maturità della linea teatrale, nella resa melodica segna un certo regresso rispetto ai momenti creativi della Bianca e del Pirata, dove si distacca recisamente dallo stile rossiniano, che riemerge in questa infelice opera nel fondo ritmico, nel gesto animatore e nell’impostazione melodica di alcuni pezzi. Una pagina interessante musicalmente è il duetto tra Arturo ed Alaide, il cui svolgimento tra recitativo e gli episodi ariosi risulta armonico, così come una svolta lirica è sulle parole di Arturo (Ah! Se tu non vuoi fuggir).

Il terzetto (No, non ti son rivale) è elaborato su una chiara complessità d’insieme di levatura classica; mentre una pagine chiaramente rivelatrice risulta il terzettino (Ah! Non partir), mosso da un gioco di contrappunto vocale – strumentale. La scena finale (Or sei pago, o ciel tremendo) si mostra sostenuta, marcata e martellata, quasi a voler incidere le parole nel suono.

L’empito lirico belliniano è purtroppo assente, così come la distensione melodica, che dischiude nuovi moti ed apre nuovi orizzonti d’espressività. L’inizio del Quartetto (Che far vuoi tu?) parte con una vocalità dialogata di sostenutezza drammaticamente espressiva, per risolversi in una lirica vocalità di pura armonia; un larghetto sostenuto da ricordare come una delle pagine più pure di musica del melodramma ottocentesco.

IV.

La Zaira fu un’opera decisamente mancata, la cui poesia «fu scritta a brani mentre si faceva la musica, di maniera che più permesso non era di riandar sul già fatto; e poesia e musica furono compiute in meno di un mese», scrisse il Romani, che trasse l’argomento da Voltaire, dietro suggerimento del Florimo. L’opera andò in scena il 12 maggio 1829 a Parma e non riscosse successo, nonostante il grado di stima che Bellini nutrisse per il suo lavoro, di cui utilizzerà, successivamente, alcuni spunti o interi motivi modificati e rielaborati. Anche nella Zaira, secondo la prassi dell’epoca, Bellini ricorse agli auto – imprestiti: dalla Bianca e Gernando trasse il coro Tutti siam?, utilizzandolo nel coro dei Cavalieri francesi.

Felice Romani fornì un nuovo libretto per un argomento, che aveva attirato già l’attenzione di Niccolò Zingarelli e Nicola Vaccaj: Giulietta e Romeo, che diventò I Capuleti e i Montecchi, rappresentata l’11 marzo 1830 presso la Fenice di Venezia, interpreti: Giuditta Grisi (Romeo), Carradori Allan (Giulietta), Lorenzo Bonfigli (Tebaldo). Il nuovo lavoro del maestro catanese colse un fervido successo, nonostante l’opera contenesse dei numeri della Zaira, precedentemente fischiata. Durante la gestazione della composizione, Bellini confessò, in una lettera dell’8 gennaio 1830, delle perplessità all’amico Alessandro Lamperi:

«[…] tutta Venezia mi sta pregando acciò io scriva un’opera, ma in un mese: vedete che sarebbe un gran rischio, eppure ho dovuto dir di si per non disgustarmi il pubblico che per bocca del Governo mi ha fatto dire che si contenteranno di ciò che posso fare in si breve tempo: basta che non li lasci con vecchie opere; per ciò se sino al giorno 14 corrente, Pacini non verrà, spetta ame ad inghiottire la pillola».

Ed il 30 dello stesso mese:

«[…] scrivere un’opera per esserne forzato dalle tanto gentili maniere, e scriverla in un mese che il solo doverla finire mi confonde le idee, è il mio sofferente martoro. Frattanto ho finito l’introduzione e quasi il finale del primo atto che mi ha fatto impazzire».

Sentendo sfiancante la pressione, Bellini si risolse a utilizzare del materiale della fallita Zaira, seppur mutato, per adeguare il contesto musicale alle esigenze del libretto.

La sinfonia de I Capuleti e i Montecchi come il Coro introduttivo, imbastito su un motivetto a ritmo ballabile risultano piuttosto di maniera. Nella cavatina di Tebaldo non brilla l’anima belliniana, mentre nella successiva cabaletta (Ma se avesse il mio contento) si riscontra qualche guizzo d’invenzione interessante. L’ingresso di Romeo, nella semplice e sostenuta dizione, è stato estratto, rimodellato, dalla Zaira, così come il motivo della cabaletta (La tremenda ultrice spada) ed il successivo duetto tra Giulietta e Romeo. Gran parte della frase del finale dell’atto primo (Se ogni speme è a noi rapita), d’intenso palpito, ha la sua derivazione dall’infelice opera precedente.

La musica de I Capuleti, in fondo, risulta legittimamente convenzionale, con derivazione ritmiche rossiniane, pur non mancando pagine di soave levatura come la prima romanza di Giulietta, tratta dall’Adelson e Salvini, così come il quintetto (Soccorso, sostegno), che inizia senza alcun accompagnamento orchestrale e, seppur rimembri l’influenza rossiniana, rivela una certa autonomia espressiva. Nel Concertato finale del secondo atto, Bellini presenta dei tratti, che anticipano il carattere delle opere di Verdi. La morte di Giulietta è d’impeccabile rilievo, che raggiunge la maestosità ispirativa nell’atto esatto del suicidio: scena compiuta, fervida di moti interiori ed intensa di calore affettivo.

V.

La Sonnambula non presenta alcuna zona d’ombra e sviamenti, svelandosi in una salda consapevolezza formale, seppur possiamo rinvenire momenti di buona convenzione, che non deprimono il tratto compiuto. Il fatterello dovrebbe essere un idillio, rappresentazione di vita semplice ed ingenua, cosicché il dramma nascerebbe da un equivoco, causato dall’ignoranza dei popolani, che ignoravano il sonnambulismo. I tre protagonisti (Amina, Elvino e Rodolfo) risultano personaggi scoloriti da un eccessivo semplicismo librettistico, fortunatamente rivitalizzati dall’aspetto musicale, che tocca vette d’incantevole soavità e purezza d’intenti.

Elvino è un contadino ricco ma molto povero d’idee; Rodolfo non sembra esprimersi con maggior intelligenza, così come Amina quasi trascinata dalla figura del tenore, intorno ai quali si compie il miracolo della creazione musicale, che assorbe la parola, prendendone il posto. Il popolo non è un personaggio, ma esprime il sentimento popolare con accenti lirici e pastorali, come nel coro A fosco cielo, pura architettura di suoni; Rodolfo risponde (Ve la dipinge, ve la figura la vostra cieca credulità) con una linea melodica flessuosa ed addolcita. Nel Quintetto si esprime la massima potenza d’espressione congiunta ad una perfetta serenità di forma, dove il ritmo espressivo diventa più intenso ed avvolgente, mentre il coro accompagna commentando, inserendosi nelle articolazioni liriche del concertato.

La Sonnambula è musica metateatrale, poiché il suo valore trascende i il livello prosaico della commedia, traboccando in una pura sinfonia di canto. Amina ed Elvino sono trasfigurati dal senso musicale, come nell’andante (Prostrato al marmo), che si delinea per il fervore dell’arioso, quindi nell’offerta dell’anello, il quale segnerà l’incontro dei due innamorati.

La tensione lirica raggiunge il massimo sviluppo nella scena del fiore (Ah, non credea mirarti), in cui la melodia sembra rinnovarsi senza mai tornare su se stessa, palpitando in un’effusione di canto di mirabile unità e molteplicità. Ritroviamo tutta la pura espressione, che racchiude tanta potenza di vita, che unisce la perfezione di un oggetto prezioso al battere di un cuore commosso.

VI.

Nella primavera del 1831, a Parigi si rappresentò con successo Norma, dramma di Alexandre Soumet, su cui Felice Romani avrebbe desunto il libretto per la musica di Vincenzo Bellini.

La vicenda è assai nota, Norma, sacerdotessa fedifraga del dio Irminsul, presso cui era consacrata quale vestale, ama Pollione, proconosole romano nelle Gallie, il quale, a sua volta, si è fortemente invaghito della bella sacerdotessa, Adalgisa.

La scena del primo atto è cupa e suggestiva: la selva druidica oscura e paurosa, dominata da querce secolari, è popolata da sacerdoti, dalle bianche vesti, e soldati, impettiti e marziali. La musica introduttiva è solenne, velata di mistero per la maestà d’un tempio e l’incantesimo di un sortilegio. L’incontro tra Pollione e Flavio occorre, per informare il pubblico della passione, che ha acceso il proconsole per la giovane sacerdotessa, cui segue l’ingresso di Norma, solenne e scultorea. Ella ha udito voci di guerra, nonostante il dio esiga la pace e così si avvia a compiere il rito, proprio nel bosco innalzato a tempio, tra colonnati di querce. Per omaggio alla divinità, Norma raccoglie il vischio, mentre la luna splende radiosa, ordinando al popolo d’inginocchiarsi, per sciogliere un’invocazione di pace: un canto senza materia, un volo senza battito d’ali nella contemplazione serena, libera, spirituale del momento: Casta diva. La parola sembra annegare nel canto, in un’architettura commossa e scolpita nel marmo, palpitante d’una vita dischiusa nella sua interiorità. Il suono conquista lo spazio nel suo flettersi e distendersi; sembra fermarsi per respirare e tornare ad ondeggiare in un movimento, che freme del suo stesso palpito di suono: dire senza parlare.

Adalgisa, già al suo apparire sembra che entri in scena a passi leggeri, col profilo sottile di una melodia di cristallo, in cerca di quella solitudine cara alle anime innamorate, perché possano finalmente vivere l’abbandono degli affetti. Nel recitativo di presentazione, è l’orchestra, che prende l’iniziativa lirica: un movimento raccolto e compunto come una preghiera: Proteggimi, oh Dio!, una frase potente, curva di canto e di slancio.

La musica stabilisce le posizioni dei personaggi: Pollione deriverebbe la sua espressione dagli altri personaggi, infatti nei duetti con Norma, l’espressività sublime della sacerdotessa infonde il suo percorso melodico, salvo che nella scena finale, dove la forza drammatica della situazione, lo porrebbe al centro di una resurrezione espressiva.

Adalgisa rappresenta l’opposto caratteriale di Norma: dolce, delicata, debole, quasi sul punto di cedere a Pollione, per seguirlo a Roma. Norma, al contrario, ama e freme, così quando la giovane sacerdotessa, oppressa dal rimorso, le confessa il suo amore segreto, non la rimprovera, poiché rivive il suo passato, rimanendo assorta in una visione d’amore e di rimpianto.

La musica di Bellini avvolge le due donne con una melodia supremamente dolce e serena, dove traspare, ben disegnata, la figura mite e timida di Adalgisa, mentre conferma Norma scultorea e solenne, come una statua greca animata da passione romantica. Il tono secco e narrativo torna colla confessione di Adalgisa; delle battute di sospensione espressiva interrompono la continuità del dramma, presentandosi quali respiro dell’azione.

Con la sua forma essenzialmente lineare, Norma si mostra un personaggio rappresentazione vibrante del suo dramma: il tradimento di Pollione e così il suo impetuoso reagire costituiscono il dramma materiale, da cui si formano i pezzi musicali: il mirabile duetto con Adalgisa (Mira, o Norma), l’incontro con Pollione (In mia man alfin tu sei), il coro Guerra, guerra!, che prorompe dal cuore di Norma. Il dramma diventa corale, mentre la potenza espressiva raggiunge il culmine.

VII.

Bellini trascorse molto tempo a scegliere l’argomento da mettere in musica: Oreste tratto dall’Alfieri, Cristina di Svezia, alla fine la scelta cadde su Beatrice di Tenda, rappresentata con mediocre successo a Venezia il 16 marzo 1833.

Nel lavoro affioreranno parti di stanchezza creativa, in cui l’autore sembra contempli l’ombra di se stesso e, ad eccezione del duetto tra Beatrice ed Orombello ed il Quintetto, si rifugia in una mediocre convenzione.

La cavatina di Beatrice (Ma solo, ohimè, son io) non rivela particolari momenti di felice ispirazione; il Finale dell’atto primo, pur essendo ben impiantato, sbocca in un movimento di ampia e doviziosa cantabilità, dopo un largo rossiniano. La Stretta è decisamente di pura convenzione. Il Coro d’introduzione del secondo atto minaccia toni piuttosto torvi ma manierati, rinfoderati in un ritmo senza anima, al di qua di ogni lavoro di fantasia. La pagine migliore dell’opera rimane la scena affettuosa tra Beatrice ed Orombello (Tu morrai con me morrai) con slanci melodici tipicamente belliniani ed il Quintetto a seguire.

Nell’ultima opera, I Puritani, Bellini s’innalza a grandi altezze musicali e nel complesso l’armonia risulta più accurata, così come il colorito orchestrale, nell’affermazione lineare e puro della sua essenzialità. La composizione dell’opera destò, sin da subito,preoccupazioni, perché l’ambiente parigino era tecnicamente più edotto e sensibile, cosicché le accuse passate di far suonare la sua orchestra a mo’ di chitarra, fornendole musica spoglia e disadorna, provocarono il suo orgoglio professionale e cercò la soluzione, al fine di professarsi un serio musicista.

«Sin’ora a Parigi sono stimato come il migliore dopo Rossini e spero, se non m’inganno, di rinforzare tale idea con la mia nuova opera la quale mi apre che si mostra bene assai: l’ho poi strumentata di un’accuratezza indescrivibile che ogni pezzo che finisco, guardandolo, provo una grandissima soddisfazione», scrive al Florimo il 21 settembre 1834.

E il 4 ottobre 1834 sempre al fidato amico:

«Tu devi sapere che io avevo pregato Rossini (per fargli la corte e poi perché lo credo capace di darmi aurei consigli) di volersi benignare a guardare la mia opera per darmi qualche parere: egli mi disse che l’avrebbe fatto. Ma si consolava aver visto digià qualche pezzo (parlava della Preghiera) ove aveva capito che io sempre più studio, avendo trovato le voci ben disposte, e che quindi credea di potermi dire qualche cosa su lo strumentale. Ora io, avendo strumentato come mai ho fatto, spero anche che mi troverà, con sua meraviglia, anche avanzato in tal punto».

Bellini riconosce il genio di Rossini e si comporta come uno scolaro, che pensa ed agisce forse con una punta di cinismo:

«[…] se avrò la protezione di Rossini sarò a cavallo; mentre sino adesso non ha detto che male, malissimo di me, dicendo che il più che ha genio in Italia è Pacini, e, per la tiratura dei pezzi, Donizetti, e questi stupidi di giornalisti sentono ed hanno sempre ascoltato Rossini come un oracolo ed egli ha malmenato che gli faceva ombra e portato in cielo i suoi plaziari alla vergogna».

La maggior cura della forma, la ricercatezza e la finitezza appaiono chiari nella stesura de I Puritani, tantoché la complessità musicale sembra prevalere sulla bellezza ed efficacia espressiva in pagine notevoli seppur stilisticamente artefatte. I consigli del Rossini sono bene appresi dal giovane Catanese, il quale riesce ad incorporare il fluido ritmico (caratteristica del Giove parigino) in disegni di drammatica mobilità con rapidità ed intensità di eloquio strumentale, come nel finale primo (Figlia a Enrico, a Carlo sposa) e il sinfonico martellare tematico, che ritrae l’affannosa fuga della regina (La prigioniera! Dessa io son!), nel pulsante palpitare di vita sonora e di colorazioni modulanti, in cui si svolge il finale primo. La Stretta è disegnata con vigorose e potenza, rifiutando ogni forma d’intervento convenzionale; le pagine sono armonicamente levigate ed eleganti e sostengono melodie pregnanti ed incisive. La romanza di Arturo del terzo atto, preceduta da una bella elaborazione strumentale d’incanto rossiniano, presenta una buona costruzione armonica ed, alla ripresa, s’ingioiella di varianti ed eleganze. Nel duetto tra Giorgio e Riccardo (Se tra il buio un fantasma vedrai), non mancano gesti di pura ed incisiva cantabilità ed il Concertato ultimo presenta movenze, toni ed elaborazioni davvero sorprendenti.

Il genio di Bellini seppe attingere presso nuovi orizzonti espressivi, consumarsi nel concepire e disegnare un’opera importante e complessa, gestendo mirabilmente i momenti, in cui il sentimento reclama d’esser raccolto in una sua vita intensa e feconda di poesia, come nell’A te, o cara, nel Larghetto sostenuto (Oh! vieni al tempio) d’una commozione serena e contemplatrice, quasi un sorriso imperlato di pianto. La scena di Elvira (Oh rendetemi la speme) è l’incarnazione sonora di sentimento infinito, che ritroviamo solo in Casta diva e nel rimpianto di Amina, la quale si esprime in quel momento e sempre, così scolpito nel suono e vivente nella realtà di forma vivente. La parola è articolata in architettura di suoni, che trova la ragione di ogni sua comunicativa nei moti compositi e nell’intensità del suo individuale vibrare; non abbiamo mai trovato traccia di così tanta autenticità estetica e di sentimento trasfuso in purezza e nudità d’idee.  La sua ispirazione è, al tempo stesso, profonda ed ingenua; egli racchiude il sublime in poche battute, dove manifesta tanta vita di sentimento in tanta umiltà di forma ed allora ecco il paragone con l’arte ellenica, nella cui nudità di dizione e semplicità di gesto risiedono le grandi idee, i grandi discorsi.

Il canto di Bellini ha un suo colore ed un profilo, costituenti l’essenza del suo carattere lirico, espressa nella semplicità elementare delle forme, pronto continuamente a rinnovarsi, racchiudendo una pluralità di voci, le quali, anziché addizionarsi, come nella polifonia, si distendono negli spazi della melodia. In questa misteriosa unità, convergono tutte le forze del dramma, che è vita ed essenza lirica, elementi di composizione del canto di Bellini, colto nel suo puro significato espressivo, che discopre una qualità di forma atta a tradurre la realtà emotiva in potenza di rappresentazione e di linguaggio.

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