Il 28 gennaio 1910, uscì sul quotidiano La stampa di Torino, per la rubrica Cronache letterarie, una recensione a firma di Giuseppe Antonio Borgese del romanzo «Forse che si forse che no» di Gabriele D’Annunzio.
L’articolista denunciò la «gravosa lettura – sentenziando che – pochi, oltre gli spiriti addestrati alla fatica d’archivio o di biblioteca riusciranno a varcare la centesima pagina – rilevando, purtuttavia che – in compenso è un libro molto piacevole alla meditazione», che avrebbe lasciato l’eroico lettore nel riflettere sull’«enigmatica creazione».
L’azione. I personaggi sono Paolo Tarsis, «esploratore, automobilista, aviatore e Giulio Cambiase, suo compagno di gesta; tre sorelle Lunati: la ricca Isabella, vedova di Marcello Inghirami, Vana e Lunella, che vivono alle spese della maggiore, come il fratello adolescente, Aldo. I Lunati appartengono ad un albero degenerato, minacciando tracce di pervertimento. Notiamo già nel padre, che i lettori del romanzo conoscono solo per sentire: uomo di bestiale egoismo, che ha dissipato il patrimonio famigliare ed ha sposato in seconde nozze, una sozza concubina, cui le figliastre chiamano Sciacallo. E sintomi di futura degenerazione si notano anche nella piccola Lunella, così morbosamente sensibile e malinconica, che perfino le sorelle le riconoscono a loro somigliante e le vaticinano funesta la vita. Aldo è effeminato e lubrico come un Ermafrodito, e languisce sotto l’incubo di una passione incestuosa; è già stato l’amante della sorella, Isabella, e non sa dimenticarne i baci. Il furore sensuale lo trascina fino alla soglia del delitto; e, se non glielo vietasse una fortuita combinazione provvidenziale, porterebbe a compimento il proposito di assassinare con la più vigliacca astuzia il suo fortunato rivale amante d’Isabella, Paolo Tarsis. Le qualità morali d’Isabella non sono ancora definite dall’incesto con Aldo; oltre ad aver iniziato il fratello nei misteri della lussuria criminosa, ha avuto prima di Paolo Tarsis almeno due fidanzati onorari; aborrisce il padre e tormenta con lo spettacolo del suo amore la trionfante sorella Vana. Le sue colpe sono prive anche di quella grandezza e, vorrei dire, purità, in cui potrebbe sublimarle una sincerità folle. E’ vero che, quando Paolo Tarsis ha avuto contezza dell’incesto, ella si giustifica con la piacevole alterigia che non è insolita ai criminali dannunziani:
“La colpa di cui mi accusate, io l’ho commessa; e vorrei non discolparmi. L’ho commessa per amore dell’amore, perché non è vero che la perfezione dell’amore sia nella congiunzione di due… L’amore, come tutte le potenze divine, non si esalta veramente se non nella trinità”.
Isabella finisce pazza; Vana finisce suicida. Questa fanciulla nevrotica, tossicomane e megalomane, fermamente persuasa d’essere un giglio di purità e un cumulo di eroiche forze inespresse, è invece, checché ne pensi il D’Annunzio, vitale abiezione, da gareggiare con la sorella maggiore e col fratello minore. La sua passione dominante è l’inquietudine della vergine desiderosa di passare a miglior condizione; l’uomo, verso il quale ella ha diretto l’ardore della sua cupidigia, è proprio Paolo Tarsis, l’amante della sorella», la quale rifiuta ogni possibile occasione, rinunciando a gustare la «bellezza di un’erotica trinità». Eppure Vana continua ad usare tutto ciò che le fornisce la sorella: dal cibo ai gioielli, nonostante possa vivere nella libertà economica grazie alle indubbie doti di cantante. Ella tenta di distrarre Paolo da Isabella, raccontandogli dell’incesto ed inguaiando così anche il fratello.
Paolo Tarsis, al di là dei tanti trionfi sportivi, denuncia mediocrità, poiché «soggiace al fascino della sua funesta amante con la viltà di un qualunque eroe dannunziano». Sfugge per caso all’agguato mortale ordito da Aldo, reagisce con un furore sadico alla denuncia di Vana, alla quale condirà di «più acre sapore la prossima orgia. Venuta Isabella al convegno, egli le lancia sul volto una parola da trivio e tre volte le ripete: poi l’acciuffa ed eroicamente la picchia fino a farla illividire e sanguinare; e finalmente, bene eccitato dall’onta e dalle busse, si sommerge in frenetiche voluttà, chiedendole fra un rantolo e l’altro perdono d’averla offesa»
Vana si uccide; di Aldo non si sa più nulla; mentre Paolo Tarsis, l’eroe, pensa anch’egli al suicidio, desiderando attraverso l’aeroplano di cadere nel mar Tirreno ad emulazione di Icaro, ma finisce sulla terraferma, in Sardegna: l’eroe non può morire. «E così finisce il romanzo: con un suicidio mancato, con una vittoria fortuita e con un pediluvio».
L’anima del romanzo. «Quattro personaggi in tutto: un incesto, una denunzia fratricida, un tentato assassinio, un’orgia sadica, un suicidio, un’oscena follia, un tentato suicidio. D’Annunzio ha rappresentato senza volere un mondo di disperata decadenza morale e di misera disgregazione mentale. Non vale neanche la pena di mostrare che l’artista, il quale non capisca la sua materia e veda sublimità morale nell’incesto, virile dignità nelle percosse aduna donna, falsa necessariamente i rapporti e corrompe lo stile. Portando fino ai termini estremi il principio dell’artistica libertà, si può perfino dubitare che noi s’abbia torto e D’Annunzio abbia ragione».
D’Annunzio compenetra l’amore orgiastico, colla brama dell’impresa eroica, che apparentemente sembrerebbero in contrasto tra loro.
Perché Paolo Tarsis aspirerebbe a conquistare l’aria? (Altro elemento d’intrusione nel romanzo, come il titolo).
«La conquista dell’aria dovrebbe rappresentare la definitiva vittoria dell’eroe dannunziano sulle leggi decrepite e sulla morale degli schiavi; e ali metalliche dovrebbero dargli l’empito necessario a violare tutti i divieti e a vivere secondo la sua legge.
La passione incestuosa manca di rapporti sostanziali col centro dell’azione; Vana reagisce alla vergogna, solo quando per i suoi fini particolari le conviene; Isabella se ne compiace ricordando; Aldo ignora il rimorso. Paolo Tarsis, dopo aver insultato la sua donna, si rivolge con forbita allocuzione:
«Tanto la misura c’è ignota, che hai un amante perfino in casa tua, hai pervertito perfino chi ti vive accanto, sotto gli occhi delle tue piccole sorelle», quasi che un incesto fosse più o meno riprovevole secondo che è pubblico o segreto.
«Forse che si forse che no» è un dramma, ove le passioni carnali sono in contrasto, ma i motivi interni sono perfettamente concordi e i protagonisti «sentono con l’identica disposizione d’animo la vita e la realtà».
Paolo Tarsis non sente l’errore del peccato d’Isabella? Forse che si, poiché la picchia; forse che no, poiché le chiede perdono.
Isabella è contenta di sé? Forse che si, perché lo dice; forse che no, perché accumula menzogna su menzogna, presentando come fidanzati gli amanti.
«Forse che si forse che no» non è «né un romanzo, né un’opera d’arte di qualsivoglia altro genere o altra specie; un informe ammasso di parole, senza capo né coda, senza ritmo o svolgimento. E perciò anche la più pertinace volontà non arriva in fondo».
La forma e lo stile. Forma e stile corrispondono al contenuto, e «frase per frase, parola per parole, tutto è contaminato dalla malattia che avvelena l’ispirazione. Le reminiscenze letterarie, storiche, pittoriche, archeologiche sono disperatamente convocate per riallacciare quest’arbitraria fantasmagoria con qualche cosa cui i tempi abbiano ratificata col loro suggello. Il lusso delle immagini è divenuto spasmodico, perché con ogni metafora D’Annunzio tenta di lanciare un uncino verso la realtà che gli sfugge. Quando non trova un’esteriorità visibile e palpabile da descrivere e d’annusare, D’Annunzio precipita in vuote generalità, che potrebbero esser musicali se fossero espresse con note ed accordi; ma non sono poetiche, sebbene siano espresse in parole. L’autore, poi, dolorosamente incerto di ciò che pensa e che scrive, s’afferra alle più trite particolarità della vita quotidiana, e lo descrive a perdifiato. Se non che D’Annunzio, pur d’illudersi sulla realtà e sui nessi estetici della sua scervellata fantasticheria, s’aggrappa a tutte le minuzie, come chi precipita tenta di ghermire anche un filo d’erba, e l’ubriaco, brancolando, palpa tutti gli oggetti che incontra nel suo cammino tortuoso senza origine e meta».
Il genio forse si smarrisce, ma non si estingue. Poiché D’Annunzio è un uomo di genio: «chi volesse raccogliere le frasi ed i periodi, nei quali si esprime con ardente lucidità una frenesia di senso o un aspetto febbrile della natura, ne avrebbe per parecchie pagine grandi. Ma l’opera d’arte non è un cumulo di detriti, ove si debba razzolare per trovar la perla. E’ un’unità vivente, e come tale dev’essere considerata e giudicata. Preso nel suo significato spirituale e nel suo complessivo valor letterario, nell’intuizione che l’anima e nella forma che il poeta gli diede, “Forse che si forse che no” è ancora un salto lungo la china sdrucciolevole per cui l’arte dannunziana dalla “Fiaccola sotto il moggio” in poi, va precipitosamente ruinando. Né ancora si vede come e donde sorgano le nuove forze che aiuteranno il poeta a riprendersi e a risalire ancora una volta verso il capolavoro».
LA VITA DI GABRIELE D’ANNUNZIO
L’esordio letterario di Gabriele D’Annunzio: «Primo vere»
L’amore per Giselda Zucconi,«Lalla»
L’amore per Maria Hardouin di Gallese
Gabriele D’Annunzio e Elvira «Barbara» Leoni: cronaca di un grande amore
Gabriele D’Annunzio e Elvira «Barbara» Leoni, la fine di un grandissimo amore
L’incontro con Eleonora Duse
Gabriele D’Annunzio e Eleonora Duse: «Sogno di un mattino di primavera».
«Il Fuoco» di Gabriele D’Annunzio
«Francesca da Rimini»
Gabriele D’Annunzio ed Eleonora Duse: la fine di un grandissimo amore
Gabriele D’Annunzio e Alessandra Carlotti di Rudinì: la fine
Il trionfo de «La Nave»
Il tonfo di «Fedra»
«Forse che si forse che no»
«Le martyre de Saint Sébastien»
«Contemplazione della morte»
L’insuccesso de «La Pisanelle»
Alla vigilia della Grande Guerra
L’Italia in guerra
Eroe di guerra
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L’Impresa di Fiume
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La fine dell’Impresa di Fiume
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Tra Sinistra e Destra
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La Marcia su Roma
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La fine dell’impegno politico
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Il nume della patria
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Il Vittoriale degli Italiani
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Il declino
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ARTICOLI SU GABRIELE D’ANNUNZIO
Alla prima de «Il ferro» di Gabriele D’Annunzio presso il Teatro Carignano di Torino
Alla prova generale de «La Pisanelle» di Gabriele D’Annunzio
Frammenti di musicalità dannunziana
La Impresa di Fiume nell’analisi dei giornali dell’epoca
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Una visita a Gabriele D’Annunzio. Il Poeta nella solitudine del suo studio
Gabriele D’Annunzio: l’ultima Crematilde
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Gabriele D’Annunzio: morte di un poeta
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LE LETTERE D I GABRIELE D’ANNUNZIO A BARBARA LEONI
«Ancora un minuto, un bacio, una parola, un sospiro e poi la morte, la fine, l’annientamento»
“Come ti amerò, quando di riavrò ancora!”
«La gelosia! Io no so, io non comprendo»
“La mia stessa languidezza mi fa più voluttuoso”
«Leggo e rileggo la tua lettera, senza saziarmi, con una voluttuosa lentezza, come un veleno dolce e mortale»
«Mai mai le nostre bocche ebbero un attimo di sazietà»
«Penserò a te di continuo, con una tenerezza ineffabile»
«Preferirei mandarti una bella coppa fumante di mio sangue, perché tu ci affondassi la faccia pallida e terribile»
«Quando tu mi sei vicina, io spero. Quando tu ti allontani, io dispero»
«Solo una notte, e mai non fosse l’alba!»
«Ti bacio la bocca, ti ripeto le parole folli di quella notte»
“Tu dovresti amarmi sempre sempre e con infinita tenerezza”
«Tu sei entrata nel mio sangue come una fatalità dolce e tremenda»
«Tutto il sangue, tutta la carne, tutto l’essere mio dalle profonde radici ti chiama e ti vuole»
«So bene che non ritroverò mai Barbarella». L’ultima lettera di Gabriele D’Annunzio a Barbara Leoni
LE LETTERE DI GABRIELE D’ANNUNZIO A NATALIA DE GOLOUBEFF
«Dove sei? Senti il mio amore che veglia e che chiama?».
«La notte sono molto triste nel mio letto solo»
«Perché hai voluto impadronirti dei miei sensi così terribilmente?»
«Prendi la face, prendi l’acqua lustrale».